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23 luglio 2016

Vite che non sono la mia di Emmanuel Carrère

Da quando mi sono persa tra le pagine di "Limonov" e "La vita come un romanzo russo", Emmanuel Carrère è entrato prepotentemente a far parte della cerchia dei miei autori preferiti. Tuttavia, il libro che ha lasciato in me un'impronta indelebile è "Vite che non sono la mia". Molto più di un romanzo, molto più di una storia vera, molto più di un libro caratterizzato da una scrittura sincera. Molto più di tutto.

Classe 1957, Emmanuel Carrère è scrittore, sceneggiatore e regista francese. Oserei aggiungere: senza troppi peli sulla lingua.
"Vite che non sono la mia" è invece un suo libro - passato un po' in sordina - del 2009.

La sinossi è semplice: Carrère, in pochi mesi, assiste a due eventi drammatici che lo sconvolgono. Vittime due Juliette, una bambina morta durante lo Tsunami del 2004 e un'indomita donna impegnata in una battaglia contro il cancro.
La prima si trovava in Sri Lanka in vacanza mentre anche lo scrittore era lì, la seconda faceva il giudice ed era la cognata di Carrère.
Lo scrittore diventa quindi involontario testimone di due eventi che da sempre lo spaventano: la morte di un figlio per i suoi genitori e la morte di una madre per la sua famiglia.

Mosso da un suggerimento che diventa presto obbligo morale, l'autore trasforma le due storie di dolore e morte in un romanzo unico. Perché questo è Carrère: un autore capace di esprimere con una scrittura trasparente e affilata tutte le luci e le ombre della realtà.

"È un libro" - come ha detto l'autore - "dove tutto è vero". E per questo risulta essere così potente, per questo riesce a colpire in modo così forte.

Tra le pagine di questo intimo romanzo le storie crescono e si arricchiscono, e le situazioni miste a parole taglienti avvolgono e frastornano il lettore.

La vita, in tutta la sua altalenante potenza, si cristallizza nella scrittura e nel voyeurismo tipico di Emmanuel Carrère che trova finalmente la sua funzione: analizzare, sminuzzare e portare alla vera essenza la sofferenza.
Così il dolore - elemento inevitabile della vita - trova finalmente pace tra le pagine di un racconto. A dimostrazione di quanto la scrittura abbia un potere esorcizzante. Per chi scrive e chi legge.

13 luglio 2016

La gang del pensiero

"L’unico consiglio che posso dare, se per caso vi doveste svegliare in uno strano appartamento, in preda alle vertigini, con un’emicrania postsbronza saldamente installata nella testa, senza uno straccio addosso, mentre la polizia sta buttando giù la porta a mazzate con un sottofondo di latrati di cani infuriati, e vi ritrovate per di più circondati da mucchi di riviste patinate con foto di adulti, l’unico consiglio che posso dare, ripeto, è questo: cercate di comportarvi in maniera educata e di mostrarvi di buon umore".

Considerando che difficilmente rido ad altissima voce leggendo un libro, per aver ottenuto questo piccolo miracolo "La gang del pensiero ovvero la zetetica e l’arte della rapina in banca" si merita il riconoscimento di libro più divertente, ironico, e soprattutto intelligente, che abbia mai letto. So che gli aggettivi sono tanti, ma questo romanzo se li merita, perché dalla prima all’ultima riga ho riso di gusto, e ho dovuto anche rivalutare l’humor inglese. Ben due miracoli!

Con le avventure di Eddie Coffin, filosofo inglese cinquantenne acido e pessimista, e Humbert, un criminale dalle mille protesi e malattie, si ride (o sorride, secondo i gusti) in ognuna delle 370 pagine che compongono il libro. E il riso non nasce solo da un elenco di vicissitudini esilaranti, il merito è tutto di una scrittura abile e veloce che riesce a descrivere situazioni e comportamenti umani con un’arguta ironia. Regalandoci anche qualche pillola di filosofia, che non guasta.

I due protagonisti, tra sbronze, risse, rapine e riflessioni paradossali unite a un’acuta osservazione della realtà, ci regalano un grande esempio di comicità intelligente.
La grande qualità di Tibor Fisher è che possiede quell’ironia sarcastica, a volte un po’ acida, tipica di un satirico. Quell’ironia che descrive la realtà principalmente tramite metafore che arrivano solo chi è in grado di recepirle. Un’ironia ben diversa dalla capacità di far ridere raccontando volgari barzellette da bar, tipica di chi di intelligenza ne ha poca.

Eddie e Hubert sono senza dubbio i miei eroi personali. E anche Tibor Fisher.

Il tempo delle donne

Se l’emozione che nasce dalla lettura di un romanzo deriva per metà dalla bellezza del romanzo stesso e per metà da un’esperienza personale, come raccontarla?

In realtà l’ho già fatto due volte: una con i libri di Magda Szabo e una con il fumetto Marzi. E ora è tempo di arricchire il tema letteratura femminile con altri due libri.

"Il tempo delle donne" di Elena Cižova racconta della Russia dei primi anni sessanta. La protagonista è Antonina, giovane operaia incinta di un uomo che l’ha abbandonata.
La soccorre lo stato sovietico, assegnandole un alloggio in coabitazione con tre anziane donne. Saranno loro a prendersi cura della bambina, occupandosi della sua educazione.
Attraverso il racconto orale, ovvero la storia delle loro vite e le sofferenze affrontate, e quello scritto, i libri e le arti, le tre donne formano Sjuzanna. E la formano in maniera talmente perfetta che la traccia scavata diventa un germoglio che crescerà, trasformando la bambina in una giovane donna riflessiva, curiosa, ricettiva agli stimoli che la circondano, e infine ricca caratterialmente.

Assorbire i racconti, abituarsi ad ascoltare, sviluppare la capacità di riflettere ed essere curiosi – elementi che portano a rispettare profondamente libri, arti e cultura in generale – erano (e spero siano ancora) parte fondamentale del metodo di educazione dei paesi dell’Est, soprattutto per le donne.

Per questo sono nate persone come Magda Szabo e Wisława Szymborska, donne capaci di parlare delle emozioni umane in maniera altamente poetica e allo stesso tempo infinitamente concreta.

Perché parlo della poetessa polacca? Perché leggere il libro di Elena Cižova in contemporanea con “La gioia di Scrivere” di Wisława Szymborska, ne ha amplificato l’effetto poetico e la riflessione sulle caratteristiche di queste donne che in comune hanno la provenienza geografica.

La vita quotidiana nella Russia comunista e la delicatezza della penna di Elena Cižova, si sono perfettamente sposate nella mia mente con l’arte poetica di Wisława Szymborska, che ci ha raccontato “le cose della vita” in modo impareggiabile.
E con una poesia di questa profonda donna, che va scoperta e ri-scoperta continuamente, vi lascio.

Ritratto di donna
Deve essere a scelta.
Cambiare, purché niente cambi.
È facile, impossibile, difficile, ne vale la pena.
Ha gli occhi, se occorre, ora azzurri, ora grigi,
neri, allegri, senza motivo pieni di lacrime.
Dorme con lui come la prima venuta, l’unica al mondo.
Gli darà quattro figli, nessuno, uno.
Ingenua, ma ottima consigliera.
Debole, ma sosterrà.
Non ha la testa sulle spalle, però l’avrà.
Legge Jaspers e le riviste femminili.
Non sa a che serva questa vite, e costruirà un ponte.
Giovane, come al solito giovane, sempre ancora giovane.
Tiene nelle mani un passero con l’ala spezzata,
soldi suoi per un viaggio lungo e lontano,
una mezzaluna, un impacco e un bicchierino di vodka.
Dove è che corre, non sarà stanca?
Ma no, solo un poco, molto, non importa.
O lo ama o si è intestardita.
Nel bene, nel male, e per l’amor del cielo!