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26 febbraio 2016

Neve di Orhan Pamuk

Avete presente la sensazione di sazietà dopo un pasto eccellente? Ecco, finendo "Neve" di Orhan Pamuk mi sono sentita così: soddisfatta, contenta e anche sazia.
Il motivo è semplice: Orhan Pamuk è riuscito a trasformare il suo romanzo in un perfetto puzzle in grado di bilanciare un intreccio ben costruito, una fabula coinvolgente, un contesto storico e politico ben narrato e un’eccellente scrittura.

In un intreccio che mischia passato e presente, Neve racconta il viaggio di ritorno del poeta Ka nella città turca Kars, dopo un periodo di esilio in Germania. Ka torna a casa durante un’intensa nevicata che ha paralizzato la città, deciso a indagare e raccontare la storia di alcune ragazze che, obbligate a togliersi il velo, hanno preferito togliersi la vita.
Se gli articoli sono il pretesto del viaggio, il viaggio diventa il pretesto per un incontro tra il poeta, le sue radici, la donna amata e la situazione politico-culturale del suo paese. Qui, lo scontro tra sostenitori e contrari al velo, alimentato dalle diverse opinioni sulla cultura occidentale (chi la vuole imitare e imporre, chi la critica), sfocia in tre giorni di rivoluzione. E Ka, suo malgrado, ne è coinvolto.

La penna di Pamuk seziona come un chirurgo le idee delle opposte fazioni, addentrandosi all’interno delle motivazioni che spingono all’azione i due gruppi. Lo scrittore però, proprio come Ka, rimane spettatore oggettivo delle vicende. E al lettore lascia un’occasione di riflessione che sfocia nel dubbio se imporre il velo e obbligare a non metterlo non sia la stessa costrizione, come ricorda anche la filosofa Michela Marzano nel suo “Sii bella e stai zitta”.

Le donne, in questo senso, diventano le co-protagoniste del libro. Come oggetto delle contestazioni e, una in particolare, come fulcro dell’amore del protagonista e come elemento che determinerà tutta la storia narrata durante e dopo i tre giorni di assedio.

Ma sono co-protagoniste solo perché non riescono a rubare la scena al vero elemento dominante del romanzo: la neve. Come la neve che avvolge tutto e cancella i contorni alle cose, contribuendo allo smarrimento delle persone, così il periodo politico turco è confuso, e le posizioni non trovano un senso per dialogare. E l’esagono stilizzato di un fiocco di neve è la struttura con cui Ka decide di costruire il suo nuovo libro di poesie, ispirato dagli eventi che lo circondano.

E come la neve avvolge Kars, così questo libro avvolge il lettore.

20 febbraio 2016

Eco

"Chi non legge a 70 anni avrà vissuto una sola vita: la propria. Chi legge avrà vissuto 5000 anni: c'era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l'infinito. Perché la lettura è un'immortalità all'indietro."

Umberto Eco

18 febbraio 2016

Intervista a Massimo Conti



Posizionata a pochi passi dal rifugio che ogni giorno mi accoglie a fine giornata, c'è una ferrovia abbandonata, quella che una volta da Fano arrivava fino a Urbino.
Questa ferrovia ha sempre suscitato in me stupore e curiosità. Poi un giorno ho scoperto il libro "Traversine", che la racconta, e uno scrittore unico nel suo genere: Massimo Conti.
Quel giorno è nata una passione per questo scrittore viandante, che mi ha portato ad aver l'onore di essere citata nella ristampa di Traversine e a conoscere (questa volta non solo virtualmente) l'autore in occasione dell'uscita del secondo libro, "Il mare non ti parlerà".
Massimo Conti è un autore meritevole e una persona incantevole. Non potevo, quindi, non intervistarlo.

Perché hai cominciato a scrivere libri?
Scrivo da quando frequentavo le elementari, forse perché mia madre, grande lettrice, aveva riempito la casa di libri, che ho ereditato, e questi sembrava quasi mi sfidassero. Usavo incollare assieme due o tre quaderni che rivestivo di stoffa chiara per simulare la copertina con il titolo in bella vista: li riempivo delle gesta di un mio alter ego alle prese con avventure alla guida di un vecchio aeroplano o a bordo di un astronave.
Poi le agende hanno presso il posto, qualche anno più tardi, di quei quaderni sdruciti: vi annotavo frasi che mi avevano colpito, pensieri sparsi, pene d’amore, disegni e quant’altro trovassi interessante annotare. Nel frattempo iniziai  prima a camminare nelle montagne dietro casa e poi a viaggiare e raccontavo di tutto ciò. Scrivere mi è venuto spontaneo come credo succeda a molti; trasformare questa inclinazione, o meglio necessità, in un libro è cosa più impegnativa. Ci sono riuscito a quasi 50 anni: semplicemente dovevo farlo per liberarmi di un'ossessione legata a un viaggio a piedi di due giorni al punto che ora non so più se sia la camminata che abbia  ispirato il libro o se esso esistesse già e aspettasse solo di manifestarsi attraverso quel viaggio. Nel frattempo avevo collaborato come giornalista ad una rivista, che ebbe breve vita, scritto un saggio su cinema e identità regionale e tirato su un po' di soldi come copywriter per un’agenzia di pubblicità.

Com’è nata l’idea di Traversine? E quando e perché hai deciso di diventare uni scrittore viandante?
Ho trascorso dieci anni della mia vita da adolescente a pochi passi da una ferrovia: la Porrettana.
Bolognese di origine, nel periodo che vissi a Fano rimasi colpito dai binari abbandonati della Metaurense che attraversano la città ormai come un corpo estraneo.
Un giorno di inizio primavera, senza altro scopo se non quello di starmene due giorni da solo a camminare, l’ho percorsa fino ad Urbino.
Da quel viaggio, come dicevo prima, una sensazione legata ad un’immagine che mi perseguitava e che ho dovuto mettere per iscritto per liberarmene, una catarsi: è stato il nucleo attorno al quale è cresciuto l’intero  libro. In fondo ho scritto un romanzo che mi sarebbe piaciuto leggere: avevo davanti a me un mondo che sentivo di dover descrivere. È questa urgenza che ti spinge a scrivere, a narrare storie: perché noi tutti siamo una narrazione.
Documentandomi per scrivere Traversine, ho scoperto poi un microcosmo che voleva far sentire la propria voce perché la tutela della memoria collettiva non  rimanesse solo uno slogan vuoto di contenuti.
Mi sono così reso conto che solo il procedere lento del viandante consente di osservare le cose e non soltanto limitarsi a guardarle; si riesce camminando a stabilire con l’ambiente un rapporto empatico.
Il viandante è un pellegrino, dal latino peregrinus, “straniero”, e come tale osserva il paesaggio con sguardo disincantato ma pellegrino è anche la conchiglia dalla forma caratteristica che comprovava  l’avvenuto pellegrinaggio a Santiago di Compostela.

Quant'è importante che una lettura smuova le coscienze?

Dovremmo avere noi tutti, scrittori e romanzieri, un debito di riconoscenza verso Roberto Saviano, il suo coraggio di giovane intellettuale nello scoperchiare, prima come giornalista e poi come scrittore, i sordidi patti non scritti tra il capitalismo malato, globalizzazione  e criminalità organizzata e nella sua capacità di trasformare tutto ciò in un opera d’arte.
Gomorra in questo senso è stato, secondo il mio modesto parere, un libro spartiacque per la capacità di sollecitare domande che è uno dei compiti della letteratura: la nostra cattiva coscienza e sempre troppo accomodante.

I tuoi libri sono popolati da personaggi meravigliosi, degni di romanzi di altri tempi. Sei rimasto in contatto con loro?
Le storie che raccogli dalla viva voce delle persone che incontri sono le didascalie del paesaggio che di per sé e muto. L’abilità di uno scrittore sta nel trovare il modo e il contesto giusti con cui dar risalto alle vicende personali dei singoli per sottolineare alcuni aspetti rispetto ad altri ed inserirli, come trame secondarie ma non meno significative, in un quadro narrativo omogeneo sottolineando nel contempo i diversi punti di vista. Alcune persone, Pierpaolo l’operaio della Fincantieri, e Giancarlo, il navigatore col moscone,  incontrati durante il viaggio a piedi lungo la costa marchigiana, sono stati al mio fianco nelle presentazioni de Il mare non ti parlerà.

Sia in Traversine che ne Il mare non ti parlerà l’incontro col passato, con quello che non c’è più, suscita sempre un sentimento di commozione. E il futuro? C’è speranza per questo paese?
Pensare al nostro passato e scriverne serve solo se conduce a una riflessione collettiva sugli effetti che hanno prodotto determinate scelte e sulle modalità con le quali si è progettato il futuro senza dimenticare il contesto socio-economico e politico in cui quelle stesse scelte sono state elaborate: è la verità che è semplice mentre gli errori sono complicati. La speranza di un mondo migliore, di un Italia migliore, per le future generazioni dipende in gran parte, ne sono pienamente convinto, dai comportamenti individuali, virtuosi, che come singoli atomi nella materia una volta messi in movimento possono scatenare l’energia necessaria al cambiamento.

Qual è il libro al quale sei particolarmente affezionato? E quale invece ti ha ispirato?
Sono due i libri che mi hanno formato: 1984 di George Orwell, la mia tesina di diploma, e le Affinità elettive di Goethe. Ma sono tanti altri che ho amato profondamente: I Buddenbrok, Il partigiano Johnny, Conversazione alla cattedrale di Vargar Llosa, per esempio, mentre non amo particolarmente Cent’anni di solitudine. Danubio di Claudio Magris è quello che considero il miglior libro di viaggio in assoluto.

E ora cosa stai leggendo?
Sono un lettore onnivoro: posso divorare in un giorno, uno dietro l’altro, due romanzi di Simenon o di Lansdale per poi mettermi a rileggere pagine della Recherche di Proust. Ho appena finito di leggere Una giornata di Ivan Denissovic di Solgenitsin e Sconosciute di Patrick Modiano.

Quali progetti ti aspettano in futuro?

L’ultimo capitolo della trilogia dei ”viaggi dialettali”, dopo Traversine e Il mare non parlerà: una camminata in Appennino alla ricerca del mondo del lavoro scomparso tra miniere di zolfo chiuse, gallerie ferroviarie trasformate in coltivazioni di funghi, archeologia industriale e crisi economica.

Un grazie a Massimo Conti per la disponibilità e alla Casa Editrice Aras, per avermelo fatto conoscere.

14 febbraio 2016

Intervista a Romana Petri

Figlia del cantante lirico Mario Petri, Romana Petri è una straordinaria autrice capace di costruire grandi storie. Ha ottenuto numerosi riconoscimenti come il Premio Mondello, il Rapallo Carige, il Grinzane Cavour e il Bottari Lattes. Se il suo "Ovunque io sia" è un romanzo degno della migliore Allende, per "Le serenate del ciclone" non bastano gli aggettivi. Affascinante, profondo e sperimentale nella narrazione, l'ultimo romanzo di Romana Petri è una melodica opera che rimane impressa nel cuore e nella mente.
Oltre a regalarmi libri dotati di un'espressività senza pari, Romana mi ha fatto un altro dono: il suo tempo (accettando di rispondere alle mie domande). Ecco cosa mi ha raccontato.

Buongiorno Romana e grazie per aver accettato di rispondere alle mie domande. Iniziamo subito con due domande che definirei preliminari: perché hai cominciato a scrivere libri? Come mai hai optato per la forma narrativa?
Difficile dire del perché del proprio inizio. In genere si tratta di un'urgenza, almeno per me è stato così. Si comincia col raccontarsi delle storie che vengono in mente, ci si stupisce anche un po' di avere di queste fantasie. Quando diventano delle vere e proprie ossessioni è il momento di cominciare a farne carta. Io ho cominciato verso i vent'anni, appena finito il liceo. Ovviamente non ho pubblicato nulla di quello che scrivevo allora. Erano solo tentativi e ne ero consapevole. Devo anche dire, e con grande rammarico, di aver perso in un trasloco il mio primo romanzo. Non che fosse da pubblicare, ma era la prima cosa che ho scritto e mi è dispiaciuto.

Ci sono degli autori che più di altri hanno influenzato la tua scrittura?
Moltissimi sono gli autori che ho amato nel corso della mia vita. Diciamo che ognuno ha avuto il suo periodo e che alcuni, invece, restano sempre attuali. Questi ultimi sono di certo i più importati. Di certo la letteratura epica, la prima che ho ascoltato per bocca di mio padre che me la raccontava, recitava, leggeva, interpretava. Tutto ciò che è epico (per me sinonimo di mancanza di sfumature) mi strugge sempre. E dunque, oltre all'amato Omero, anche tutto il siglo de oro spagnolo, Cervantes, Ariosto, le Canzoni di gesta, l'Eneide. E molti romanzi decisamente epici del '900 come quelli di Guimarães Rosa, Elias Canetti, Marquez, Saramago, Clarice Lispector, Elsa Morante, Anna Maria Ortese, Giorgio Manganelli. L'elenco sarebbe lunghissimo. In genere mi appassionano le opere che, con una lingua poderosa, separano in modo chirurgico il Bene e il Male. Insomma, quella che oggi si potrebbe definire una scelta politicamente non sempre corretta.

Da dove prendi spunto per le storie dei tuoi romanzi?

Per un romanzo si prende spunto per prima cosa dalla vita. Ma la vita da sola non basta mai, ci vogliono le grandi immersioni nei libri degli altri, e non solo nei romanzi, ma anche nei saggi. E poi non sono mai gli scrittori a scegliere le storie, bensì le storie che scelgono uno scrittore. E gli danno anche un tempo. Ce ne sono che dicono: scrivimi e scrivimi subito. Altre che ti danno maggior tempo, anche quello di scrivere, in una pausa, addirittura un altro libro.
 
La tua scrittura è ricca di riferimenti alla letteratura. Quanto è stato importante questo bagaglio personale nella creazione e stesura dei tuoi libri?
Ci si riferisce sempre ai libri degli altri. Non si tratta di plagio, ma di naturale inclinazione. Ci sono libri che ci ispirano molto e che spesso ritornano in ciò che si scrive, a volte lo fanno con un'unica parola riconoscibile solo per chi la usa. la letteratura nasce sempre grazie a un processo imitativo.

Dei tuoi libri ho apprezzato moltissimo lo stile. Pulito, leggero e allo stesso tempo curatissimo. Come ti approcci al processo di scrittura? È un lavoro lungo e minuzioso?
Mi definisco una scrittrice inconsapevole. Quando mi metto a scrivere so solo che mi va di farlo, non quello che scriverò. E mi  lascio trasportare da una specie di dettatura interiore, mi viene di chiamarla così, non troverei altro modo. Poi, a libro finito, devo metterlo via e non rileggerlo almeno per un anno. Deve passare tempo del distacco. Allora comincia un lavoro molto più consapevole e meno entusiasmante, quello della limatura, degli aggiustamenti, delle aggiunte e dei tagli. In quel momento il punto d'appoggio più sicuro è il mestiere.

Le serenate del Ciclone, libro che ho amato tantissimo, è un romanzo avvincente e allo stesso tempo un toccante diario famigliare. Secondo te, trasportare in un libro la propria esperienza personale, rende la sua creazione più semplice o difficile?
Quando di parla della propria vita, della propria famiglia, come mi è capitato di fare con Le serenate del Ciclone, le idee arrivano con grande abbondanza. Si potrebbe credere allora che la scrittura sia più facile, e in parte lo è quanto a materiale, ma poi si ha a che fare con una materia troppo viva e bruciante e allora l'idea di letteratura ludica si slontana un po' e ci si ritrova a rimestare nei propri visceri. Cosa mai neutra, anzi, spesso dolorosa.

Secondo te, qual è la formula giusta per un bel romanzo?
Difficile dire qual è la formula giusta per scrivere un buon romanzo. Direi che una formula vera e propria non c'è. A me piacciono i romanzi che nascono non da una costruzione, ma da una vera e propria necessità. Insomma, preferisco gli scrittori che devono esserlo e non quelli che vogliono esserlo.

Cosa stai leggendo ora?
Sto leggendo un bellissimo romanzo di una giovane brasiliana, Ana Paula Maia, che si chiama Di uomini e bestie. Un romanzo sulla brutalità umana e sull'innocente fragilità animale.

Venivamo tutte per mare



C’erano una volta migliaia di giovani donne. E queste donne, agli inizi del ‘900, partirono dal Giappone per andare in sposa ad altri immigrati giapponesi in America. Le chiamavano “spose in fotografia”.

Un affollato viaggio in nave, l’incontro con il marito visto solo in foto, i lavori sfiancanti, lo sfruttamento, il contrasto con una cultura così diversa, la maternità, l’arrivo della guerra, il razzismo e i campi di prigionia.

Questa è, in poche parole, la storia raccontata con enfasi dalle potenti voci di queste donne. Questa è la trama del meraviglioso romanzo tutto femminile di Julie Otsuka.

“Venivamo tutte per mare” è molto più di un romanzo che parla di emigrazione. Ed è molto più di un libro di emozioni femminili.

È un piccolo diamante di carta dotato di uno stile potente e affascinante. È ipnotico e, soprattutto, corale. In ogni senso possibile.

“Venivamo tutte per mare” non è raccontato da una pluralità di voci separate tra loro, come spesso capita nei romanzi.
È narrato dal punto di vita di un “noi” corale, che racchiude tante voci, tante esperienze, tante emozioni diverse.
L’impressione è di assistere a un lungo e disperato, ma pur sempre meraviglioso, canto.

Frasi brevi e incisive, dotate di una delicatezza che solo gli scrittori giapponesi riescono a raggiungere, accompagnano il lettore attraverso un viaggio lungo una vita.

Nulla è lasciato al caso. Nessuna parola, nessuna preposizione. Le frasi sembrano intersecarsi tra di loro alla perfezione, come parti di un puzzle. Sono come un’onda. Ti colpiscono, rallentano e poi ritornano per colpirti ancora.

Ed è questo ritmo meraviglioso, che a volte ti culla e altre ti percuote, la grande forza di un romanzo unico nel suo genere.

10 febbraio 2016

Intervista a Francesco Matteo Cataluccio

Di Francesco M. Cataluccio ho adorato ogni singolo libro. Dal primo che ho letto (Vado a vedere se di là è meglio) all'ultimo (Immaturità, la malattia del nostro tempo).
Disse Salinger "Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue, vorresti che l'autore fosse un tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira." E con Francesco questa citazione si è trasformata in realtà. Solo che abbiamo usato un altro mezzo: non un telefono, ma l’email. Grazie a quest’amicizia virtuale sono stata così fortunata da poterlo intervistare.  Ecco cosa mi ha raccontato.




Buongiorno Francesco e grazie per aver accettato di essere intervistato. La prima domanda è d'obbligo: perché ha cominciato a scrivere libri?

Ho cominciato a scrivere il primo libro (Immaturità, la malattia del nostro tempo, Einaudi, 2004) quando ho smesso di dormire. Mia figlia, Bianca, da piccola, si svegliava spesso durante la notte e toccava a me occuparmene. Una volta interrotto il sonno, però, era difficile riaddormentarmi. Così presi a rileggere le decine di quaderni, piene di appunti di letture e pensieri, che avevo riempito negli ultimi anni attorno a una questione che mi si era ficcata in testa da quando mi ero occupato dello scrittore polacco Witold Gombrowicz: l'immaturità come caratteristica della Modernità.

Gombrowicz fu feroce critico dell'immaturità (basti pensare al romanzo Ferdydurke, 1937) ma lui stesso era un immaturo "innamorato della propria immaturità". Avevo un contratto che mi aveva fatto Giulio Einaudi, pochi prima di morire, per un saggio sull'argomento. Ma, sarà stata l'insonnia o la piacevole angoscia di esser padre, ne venne fuori uno strano libro, pieno di considerazioni personali e racconti, assieme a lunghe citazioni e riflessioni sociologiche. Questo è il motivo per cui ci vollero diversi anni prima che venisse pubblicato: all'Einaudi non sapevano in che collana infilarlo.

Come mai ha scelto come genere letterario la forma saggistica? 

Il successo di critica e pubblico di quella prima esperienza (tradotta in varie lingue e ripubblicata da Einaudi con l'aggiunta di un nuovo capitolo, ancor più pessimistico, nel 2014) mi convinse che la mia strada fosse quella di scrivere una sorta di saggi letterariamente ricchi, nei quali il racconto fosse la struttura principale per comunicare fatti e idee anche difficili.

La migliore definizione del mio libro successivo, reso possibile dal fatto che, nel 2010 smisi di lavorare nell'editoria, Vado a vedere se di là è meglio. Quasi un breviario mitteleuropeo (Sellerio), la dette proprio mia figlia nemica del mio sonno: "un romanzo con le note".

I suoi libri sono l'ideale per animi curiosi perché stimolano a scoprire nuovi libri. Come ci si sente a essere un riferimento per chi cerca nuove letture? 

Per mia fortuna non ho mai lavorato in ambito accademico, né scrivo per guadagnarmi da vivere (da giovane feci per un breve periodo il giornalista, ma come forma di militanza politica, ma capii rapidamente che se avessi dovuto guadagnare con i miei articoli non sarei stato libero di dire liberamente le cose strampalate che pensavo). Scrivo quindi, nei ritagli di tempo e per una buona parte delle notti, per piacere.

Fin da piccolo ho amato scrivere e disegnare per farmi capire meglio. Oltre a questo, c'è una sorta di debito di riconoscenza: sono nato in una casa strapiena di libri; i miei genitori hanno fatto di tutto per darmi un'educazione ricca e profonda; ho avuto molti maestri e amici straordinari; ho fatto sempre dei lavori che mi hanno messo a contatto con la cultura e le idee. Sento, sinceramente, di dover restituire
agli altri, come posso, un po' di tutto questo, raccontando quello che ho visto, sentito e letto e i ragionamenti che ci ho fatto su.
Per questo, nei miei libri (sempre in fondo, per non interrompere il flusso della lettura) ci sono decine di note e rimandi a libri che ciascuno, se ne avrà voglia, potrà andarsi a leggere per verificare e approfondire.

Ho amato e amo i suoi libri anche per un motivo personale: sono polacca e tra le pagine che ha scritto mi sento a casa. 

Ho abitato in Polonia, con una borsa di studio, per sei mesi, quando preparavo la tesi di laurea su alcuni filosofi polacchi e poi, per tre anni, per fare dei disordinati (ma utilissimi!) studi di dottorato in Letteratura e storia dell'arte. La Polonia è stata un'esperienza fondamentale nella mia vita, e anche per la mia scrittura. A volte, per quel poco che dormo, sogno in polacco: e mi faccio delle chiacchierate bellissime. E' un grande orgoglio per me sapere che, leggendomi, una polacca possa "sentirsi a casa".

Com'è nato questo interesse per il mio luogo d'origine e in generale per i paesi dell'Est?

L'interesse nacque dalla passione giovanile per il teatro. A Firenze si teneva annualmente un festival (la Rassegna dei teatri stabili) dove venivano spesso invitati spettacolosi teatri polacchi che mettevano in scena Witkiewicz, Wyspianski, Mrozek. E poi, in una calda primavera, arrivo Kantor con la sua Classe morta e in seguito si stabilì a Firenze per mettere in scena Wielopole, Wielopole. La Polonia è teatro. E questo vale, anche se in misura diversa, anche per altri paesi del centro Europa e per la Russia. Dal teatro mi sono mosso per approfondire quei mondi, e in questo ne sono stato, forse, un po' condizionato.

Qual è un libro al quale è particolarmente affezionato?

I libri che amo, quelli "da comodino", come li chiamava Benedetto Croce, sono: Il Maestro e Margherita di Bulgakov; i Saggi di Montaigne; Le confessioni di Agostino d'Ippona; la Divina Commedia di Dante; l'Odissea di Omero e l'Ulisse di Joyce.

Per quanto riguarda la letteratura polacca: ovviamente tutti i libri di Gombrowicz e, in particolare, il Diario (che ho curato per Feltrinelli); Le botteghe color cannella e Il sanatorio all'insegna della clessidra di Bruno Schulz (la cui edizione critica delle opere ho curato per Einaudi). Mi sento molto vicino alla sensibilità di Miłosz, Herbert e Szymborska (tre poeti che ho avuto la fortuna di conoscere personalmente).

Cosa sta leggendo ora?

Ho appena finito di leggere un libro triste ma necessario sulle centinaia di fosse, spesso inesplorate, di cadaveri massacrati, nel XX secolo, nel centro Europa: Paesaggi contaminati (Keller editore) dello scrittore austriaco Martin Pollack.

Quali progetti l'aspettano in futuro?

Dopo il libro La memoria degli Uffizi (Sellerio) sto lavorando da un paio d'anni a un libro sulle "camere delle meraviglie" (Wunderkammer), ma vengo continuamente distratto dalla scrittura di testi più occasionali, quasi tutti però legati in qualche modo all'arte.

Francesco Matteo Cataluccio (1955) ha studiato Filosofia e Letteratura a Firenze e Varsavia. Si occupa dei programmi culturali dei Frigoriferi Milanesi. Collabora al supplemento domenicale del “Sole24ore”, "ilPost", “doppiozero”, “Inventario” ed “Engramma”. Nel 2012 ha vinto il Premio Ryszard Kapuściński. Ha scritto: Immaturità. La malattia del nostro tempo (Einaudi, Torino 2004; nuova edizione riveduta e ampliata 2014; Siruela, Madrid 2006; ZNAK, Kraków 2006); Vado a vedere se di là è meglio. Quasi un breviario mitteleuropeo (Sellerio, Palermo 2010; Premio Dessì per la letteratura 2010; ZNAK, Kraków 2012; Noir sur Blanc, Paris 2014); Che fine faranno i libri? (Nottetempo, Roma 2010); Chernobyl (Sellerio, 2011; Zsolnay, Wien 2012; Wyd. Czarne, 2013); L’ambaradan delle  quisquiglie (Sellerio, 2012); La memoria degli Uffizi (Sellerio, 2013); I bambini del dottor Korczak, in Almanacco Sellerio 2014-2015 (Sellerio 2014); La stazione, nella raccolta di raccontiMilano (Sellerio 2015).  

09 febbraio 2016

Addio a Roma di Sandra Petrignani

Credete nei colpi di fulmine letterari? Io sì.
Ci credo da quando, girando per le piccole e intime librerie di Roma, sono stata “pedinata” da un libro.
Non conoscevo l’autrice e non immaginavo l’argomento, ma c’era qualcosa che mi attirava: quel libro mi stava chiamando. Ho risposto alla sua chiamata e ho scoperto un romanzo dal fascino irresistibile.

Il libro di Sandra Petrignani, Addio a Roma, è un meraviglioso e nostalgico racconto impregnato di cultura, passione, arte, letteratura, cinema e poesia. Con, sullo sfondo, la città eterna in tutto il suo splendore.

Grazie a una scrittura elegante e accurata e una notevole capacità di documentazione – sinonimo di un animo colto e curioso – Sandra Petrignani ci accompagna in un fantastico viaggio attraverso una Roma straordinaria, quella degli anni ‘50 – ‘70.

Pier Paolo Pasolini, Moravia e Morante, Calvino, Fellini, la meravigliosa personalità di Palma Bucarelli, Dacia Maraini, Piero Manzoni, i retroscena del Premio Strega, la Dolce Vita, la rivista Nuovi Argomenti, Mario Schifano, Enzo Biagi, Eugenio Scalfari e Luchino Visconti sono, da un lato, alcuni dei personaggi che rivivono nelle pagine del romanzo.

Dall’altro c’è il personaggio di fantasia Ninetta, la cui storia si intreccia e combina in modo perfetto con la vita dei giganti della cultura romana.

Per i nostalgici, o per chi vuole vivere appieno l’atmosfera dei tempi d’oro della cultura romana, questo è il romanzo giusto. Ed è il romanzo giusto anche per chi ama i libri che aprono altre porte e ti spingono ad approfondire e leggere ancora, ancora e ancora.

C’è arte, c’è poesia, c’è letteratura e c’è cinema ma, soprattutto, c’è la Roma del passato. In tutta la sua vibrante creatività.

Il fantasma della Dolce Vita aleggia e si sposta di pagina in pagina in questo romanzo. E il senso che ti assale alla fine del libro può essere riassunto da una citazione di Ennio Flaiano “Coraggio, il meglio è passato”.

06 febbraio 2016

Vertigini




La nostra amata terra è un piccolo pianeta situato in una piccola galassia chiamata Via Lattea.

La Via Lattea conta circa 300 miliardi di stelle come il sole.
Il disco stellare della Via Lattea ha un diametro di circa 100.000 anni luce e uno spessore, nella regione dei bracci, di circa 1.000 anni luce.

Un anno luce equivale a 9.460.730.472.580.800 metri ed è quindi una distanza enorme su scala umana.

La nostra galassia fa parte di un gruppo locale composto dalla Via Lattea, da Andromeda, dalla Galassia del Triangolo e da 15 galassie minori.

L'universo conta oltre 100 miliardi di galassie che contengono da meno di 1 miliardo di stelle a oltre 3.000 miliardi.

Le dimensione delle galassie va da 10.000 a 200.000 anni luce. E le stesse galassie sono separate, in media, da milioni di anni luce.

Se volete provare anche voi una lieve sensazione di vertigine e, soprattutto, scoprire nuovi punti di vista, questi i libri che vi consiglio:
  • La grande storia del tempo di Stephen W. Hawking
  • Il grande disegno di Stephen W. Hawking
  • Breve storia del tempo di Stephen W. Hawking
  • Il Tao della fisica di Fritjof Capra
  • L'universo del terzo millennio di Margherita Hack
  • Notte di stelle di Margherita Hack e Viviano Domenici
  • Storia dell'astronomia. Dalle origini ai giorni nostri di Giacomo Leopardi e Margherita Hack
  • Il lungo racconto dell'origine di Margherita Hack



Il mare non ti parlerà di Massimo Conti



Di solito ce ne stiamo sdraiati al sole, immobili, a rimirare il mare che ritmicamente si avvicina e allontana dalla spiaggia. Ora per me sarebbe stato diverso; l’incontro tra due entità in movimento: le onde e il mio cammino.”

Un nuovo libro di Massimo Conti è un sogno che si avvera. Dopo Traversine, l’affascinante racconto della passeggiata lungo l’antica (e dismessa) ferrovia tra Fano e Urbino, lo scrittore-viandante è tornato. Per deliziarci, aiutarci a riflettere, incuriosirci e, soprattutto, regalarci un nuovo viaggio alla scoperta della magia nascosta dei luoghi che ci circondano.

Dalla bellissima Vallugola alla foce del Tronto, ne “Il mare non ti parlerà. Un pellegrinaggio laico: la costa marchigiana dal San Bartolo alla Sentina attraverso il Conero“, le storie si susseguono come i lenti ma decisi passi dello scrittore. Ed ecco che diventa naturale nasconderci in un canneto con i partigiani, tentando di evitare le barriere tedesche, oppure incontrare personaggi unici: il giovanissimo nipote di un aviatore della seconda guerra mondiale e lo spirito di Pasolini, un agguerrito ambientalista che ha a cuore il suo territorio e un bizzarro milanese proprietario di una lavanderia. In un carosello in bilico tra attualità e letteratura, tra passato e presente.

E’ un viaggio a basso consumo endogeno, una lunga camminata dove il contatto diretto con gli elementi primordiali (terra e acqua) rappresenta un’emozionante occasione per ascoltare avvincenti storie di vita, ognuna unica nel suo genere. Ma rappresenta anche l’opportunità per provare a dialogare con il nostro mare e la nostra terra, che tanto avrebbero da dirci e, a volte, da rimproverarci.
Della cementificazione di Marotta ai problemi causati dall’Api, fino ad arrivare a Fincantieri e ai suoi lavoratori, l’animo sensibile di Massimo Conti è testimone delle brutture (sociali e ambientali) che affliggono in nostro tempo.

E infine la scrittura, composta da periodi leggeri e parole che si susseguono in modo dinamico, quasi seguissero il ritmo della camminata. Una scrittura musicale che ci accompagna fino all’ultima pagina, lasciandoci con un augurio: ripartire presto per un nuovo viaggio.

Piccola guerra perfetta di Elvira Dones

In questo libro le parole cadono come bombe. Una dopo l’altra. Lentamente. Silenziosamente. In modo preciso. Cadono come le bombe lanciate dalla Nato per fermare la pulizia etnica di Milosevic. E quando arrivano a terra colpiscono il cuore di chi legge fino a portarlo a un pianto finale, strozzato come le grida soffocate delle donne stuprate dai miliziani serbi.

La piccola guerra perfetta di Elvira Dones non è piccola, non è perfetta, è solo guerra. Un conflitto dove alle fiduciose aspirazioni della Nato “sarà una guerra aerea piccola e perfetta perché nessun soldato americano tornerà a casa in una bara” si contrappone quello che succede a terra.

Protagoniste sono tre donne assediate a Pristina, Rea, Nita e Hano, e le loro famiglie. Donne che vivono sulla propria pelle sia i bombardamenti che gli ottanta giorni di orrore scatenati dall’esercito serbo. Donne normali, arrabbiate, che provano a resistere e a ribellarsi alla violenza che spazza via la loro vita cercando di attraversare ogni giorno la città per telefonare al mondo e raccontare quello che sta succedendo.
Dalla finta calma prima dei bombardamenti alla tempesta di violenze, le loro vicende personali entrano nella storia e, come nel libro Cecenia di Anna Politkowskaja, non lasciano abbastanza aggettivi per descrivere la cattiveria scatenata dall’uomo contro un altro uomo.

Quando si arriva alla fine di Piccola Guerra Perfetta, non si può rimanere indifferenti. Non è solo un romanzo ben scritto, è molto di più. Sono storie vere romanzate, nate dopo anni di studi e ricerche condotte da Elvira Dones sulle violenze subite dalle donne kosovare.

L’essenza del libro è riassunta benissimo nell’introduzione di Roberto Saviano: “Non un romanzo sulla guerra, né romanzo di guerra, questo romanzo è direttamente la guerra. L’assunzione della guerra nell’occhio pietoso della vittima, che non giudica, non condanna ma comunica la sua visione attraverso uno sguardo limpido, classico che non distorce nulla”.

Quello che in realtà rimane è il senso dell’ingiustizia perfetta, che porta sempre e soli i civili a morire e soffrire, in balia di un pazzo dittatore o, come in Libia, di un esercito “amico” che vuole aiutarli nel modo sbagliato.

La guerra non è mai perfetta, l’ingiustizia sì.

Il corpo non sbaglia di Lidia Castellani

Prima di comprarlo, ho temuto di avere a che fare con un tipico libro italiano, banale e convenzionale. E per fortuna mi sono ricreduta, perché questo è il primo romanzo di una scrittrice italiana che riesce a lanciare alle donne un messaggio diverso.

Qui siamo lontani dallo spinto positivismo rappresentato dall’ovvio incontro con il principe azzurro che riscatta la protagonista sfigata e ferita. Qui c’è un altro happy end, molto, ma molto, più importante. Questo romanzo insegna, certo dopo un po’ di riflessioni e dubbi, il valore della donna, come entità singola e non come parte di una coppia. Ed è una cosa che fa riflettere al giorno d’oggi.

Si parte dall’omicidio di Emma, che viene uccisa dal marito, e da questa violenza efferata la protagonista del romanzo, Elisa, si ritrova ad affrontare il suo di dramma personale: il tradimento del marito. Inizia così la sua intensa (e interna) avventura.

La parte più bella del romanzo diventa quindi l’indagine sulla solitudine: oggi la donna sogna il principe azzurro, segnata profondamente da paradigmi culturali imposti innanzitutto dalla religione. Mentre non è così, non è detto che il principe azzurro arrivi, non è detto che la vita debba essere disegnata in modo omologato. Esistono gli errori ed esistono anche gli orrori, ma è compito della donna capire il suo valore non in relazione a un uomo ma in relazione a se stessa.
Solo così potrà farsi rispettare e, se necessario, fare poi una scelta coraggiosa per la sua vita.

L’amore d’altronde cos’è? Una relazione al pari tra due persone (uomo e donna, donna e donna, uomo e uomo) per cui, parafrasando la scrittrice “La mia vita senza di te è bella, ma con te è ancora più bella”.
L’amore è quindi qualcosa in più, ma mai qualcosa senza il quale la vita non vale nulla. Quindi, se si trasforma in qualcosa che limita, cambia il carattere o rende infelici, va abbandonato.

Il corpo non sbaglia è un ottimo antidoto perché una donna si piaccia di più come persona e non solo come donna.
Perché se scegli quello che gli altri si aspettano da te, al posto della dignità di persona, perderai sempre.

05 febbraio 2016

Il gatto in un appartamento vuoto

Morire - questo a un gatto non si fa.
Perché cosa può fare il gatto
in un appartamento vuoto?
Arrampicarsi sulle pareti.
Strofinarsi tra i mobili.
Qui niente sembra cambiato,
eppure tutto è mutato.
Niente sembra spostato,
eppure tutto è fuori posto.
E la sera la lampada non brilla più.
Si sentono passi sulle scale,
ma non sono quelli.
Anche la mano che mette il pesce nel piattino
non è quella di prima.
Qualcosa qui non comincia
alla sua solita ora.
Qualcosa qui non accade
come dovrebbe.
Qui c'era qualcuno, c'era,
e poi d'un tratto è scomparso,
e si ostina a non esserci.
In ogni armadio si è guardato.
Sui ripiani è corso.
Sotto il tappeto si è controllato.
Si è perfino infranto il divieto
di sparpagliare le carte.
Cos'altro si può fare.
Aspettare e dormire.
Che provi solo a tornare,
che si faccia vedere.
Imparerà allora
che con un gatto così non si fa.
Gli si andrà incontro
come se proprio non se ne avesse voglia,
pian pianino,
su zampe molto offese.
E all'inizio niente salti né squittii.
Wislawa Szymborska

03 febbraio 2016

Le serenate del ciclone


Ci sono romanzi che ti accompagnano in un viaggio che non vorresti mai finire, che ti fanno conoscere personaggi che non vorresti mai salutare e che ti suscitano tante emozioni quante sono le stelle in cielo. Sono quei romanzi che è impossibile non amare. È questo il caso dell’ultimissimo libro di Romana Petri, “Le serenate del Ciclone”.

La trama ha già di per sé qualcosa che anticipa lo spessore di questo romanzo: è la storia del padre dell’autrice, il cantante lirico Mario Petri.
A questo si aggiungono una forma originale, metà narrativa (nella prima parte), metà diario famigliare (nella seconda parte) e una scrittura che è come un’opera lirica: musicale, avvolgente e ricca di ritmo.
Ma anche gli amabilissimi personaggi e la ricchezza delle descrizioni degli ambienti culturali in cui si essi si muovono, nonché i numerosissimi richiami alla letteratura, arricchiscono ogni pagina di pura poesia.

Nella prima parte, quella narrativa, l’attenzione è tutta per le avventure giovanili del futuro cantante lirico. L’infanzia nella campagna vicino a Perugia, le amicizie e la vita di paese, l’incontro con il fascismo, i rapporti con il padre, il trasferimento a Roma e i primi successi sono sapientemente raccontati dalla penna di Romana. E a te non resta che gioire con Mario, disperarti con Mario, arrabbiarti con Mario e, sempre e comunque, tifare per questo meraviglioso protagonista.

Nella seconda parte, sancita dalla nascita della scrittrice, il sentimento si evolve e inizi a sentirti realmente parte della famiglia Petri. I personaggi diventano tuoi amici e le vicissitudini – dal grande successo alla caduta – iniziano a toccarti sempre più profondamente.

È incredibile veder nascere, vivere e morire un personaggio e l’ultima pagina di questo romanzo rappresenta l’addio a un amico con cui hai condiviso un percorso intenso e avvincente. Ed è bellissimo che il libro, grazie a questo, pare lunghissimo.

Per questo, e per tanto altro, considero “Le serenate del Ciclone” un libro che smuove l’anima. Un libro che ti trascina in mille emozioni ognuna diversa dall'altra.  D'altronde l'ultima volta che le lacrime hanno bagnato il mio viso così tanto è stato con Anna Karenina. Ma quella volta, chiuso il libro, la sensazione di profonda malinconia si è esaurita velocemente, il tempo di un abbraccio consolatorio del mio compagno.

Cos'ha Magda Szabo che altre non hanno?


Esistono libri che sono difficili da dimenticare, romanzi che vengono ricordati per le loro splendide figure di donne. Imperfette, reali, pensanti. Modelli di cui, vista l’attualità, abbiamo davvero bisogno.
Oggi come non mai.
Queste figure sono le protagoniste delle opere di Magda Szabo, autrice ungherese di cui vi parlerò raccontandovi due suoi libri.

Un breve accenno alla trama
“La Porta” è un libro bello e triste da perdere il fiato, una storia semplice che parla del conflittuale rapporto che intercorre tra una scrittrice incapace di affrontare i problemi del quotidiano e la moralità della sua donna di servizio.
La stessa tematica, il conflitto tra due caratteri forti, è possibile ritrovarla anche nella “Ballata di Iza”, dove una donna di provincia e la figlia in carriera si ritrovano a vivere una convivenza forzata dove il legame con il passato dell’anziana si scontra con la visione moderna della figlia.

Cosa c’è nei libri di Magda Szabo?
Lo stile della Szabo è incantevole e delicato, trasforma parole in emozioni coinvolgendo fisicamente il lettore in un sentimento antico e un’empatia intensa per i personaggi.
L’atmosfera dei libri di Magda Szabo mi riporta alla mente la Polonia (e in generale molti paesi dell’Est), dove il tempo sembra essersi fermato e i valori morali – onestà, rispetto del prossimo e delle tradizioni, educazione rigorosa – prendono forma nelle emozioni umane. Emerge nelle pagine dei romanzi l’importanza del tempo trascorso, incarnato dalla relazione con gli oggetti fisici e le persone. La nostalgia è infatti la principale chiave di lettura. Il culto della casa, dei ricordi dell’infanzia e del tempo trascorso si trasformano in un bagaglio importantissimo che rende commoventi personaggi anziani, spesso trascurati dalla letteratura.
Altro elemento fondamentale è la perfetta descrizione delle caratteristiche dei personaggi e dei rapporti che intrattengono con altre persone. Non c’è mai un buono o un cattivo per cui tifare, ma ognuno viene spiegato secondo i suoi limiti comportamentali e caratteriali. Non c’è ovvietà in questa descrizione.

C’è la realtà umana nei romanzi di Magda Szabo, quella realtà su cui è bene riflettere per capire e avere una propria coscienza da applicare ogni giorno, quando ci ritroviamo a giudicare i comportamenti di chi ci sta intorno.

Traversine: camminare è leggere

Quando un’intensa camminata si trasforma in una vera avventura, quando ogni passo diventa l’occasione per leggere il passato e il presente dei luoghi, nascono libri affascinanti come “Traversine”.

Il volume racconta il viaggio di Massimo Conti, che ha deciso di percorrere a piedi la vecchia e dismessa ferrovia Metaurense che va da Fano a Urbino.

Il risultato è una perla di libro che invita il lettore in un cammino meraviglioso. Dietro casa.

In questo caso, la recensione non può che partire dalla suggestiva copertina, che anticipa quello che sarà uno dei temi del libro. Nella foto si vede infatti parte della vecchia ferrovia che viene interrotta da una strada asfaltata in cui transita un pullman.
Si parte dalla fine dunque, dal motivo per cui la ferrovia Metaurense non è più attiva da tanto tempo: il business degli autotrasporti.
Ma lo scrittore tocca questo tema con una delicatezza composta ed educata: non ci sono accuse dirette, lamentele o prese di posizione, soltanto una sottile malinconia per un passato prematuramente perduto, e che oggi sembra completamente dimenticato.

Il passaggio del libro che racconta l’incontro con l’ultimo capostazione in questo senso è commovente. E dimostra che spesso le innovazioni tecnologiche non sono realmente tali: il treno che ogni mattina partiva da Fano alla volta di Urbino impiegava fino a 15/20 minuti in meno rispetto agli odierni pullman. Ma questa è un’altra storia, che non si può cambiare.

Ma la lunga passeggiata non è solo un incontro con il passato, è anche un’osservazione del presente, che insegna a fermarsi e scrutare la vita attorno a noi. Massimo Conti mentre cammina non guarda, ma vede. Entra nell’intimità delle case attorno alla ferrovia, indaga gli orti e quindi le abitudini delle famiglie che ancora coltivano frutta e verdura a pochi passi dalla città, e ascolta le storie e i problemi delle persone comuni che incrocia lungo la strada.
Traversine soddisfa anche quello spirito di curiosità che ha ogni affamato lettore dentro se stesso, aprendo la porta a un mondo bello e così vicino. Passo dopo passo, pagina dopo pagina, spazio dopo spazio, lo scrittore racconta la vita dei piccoli paesini adagiati, e spesso addormentati, che incrocia lungo il percorso.
Racconta l’etimologia del loro nome, la loro storia, gli aneddoti che li riguardano. E ci spiega, accuratamente ma senza annoiare mai, anche tutto quello che vede: fiori, piante, architettura e paesaggi bellissimi tra cascate, fiumi e boschi. Tanto che i suoi occhi diventano gli occhi del lettore, che viene investito della voglia di percorrerli al più presto.

Traversine parte dal piccolo e diventa grande: un grande viaggio in luoghi che sembrano ovvi e apparentemente poco interessanti, ma che in realtà hanno ancora molto da dire.

I libri di Francesco M. Cataluccio

“Liber librum aperit”
(Un libro apre un’altro libro)
Rasis

Può capitare di incontrare, quasi per caso, un grande narratore. Uno scrittore che ti stava aspettando per donarti un mazzo di chiavi capace di aprire nuove porte verso nuovi mondi.
Io e Francesco M. Cataluccio ci siamo incontrati così.
A presentarmelo è stato il mio compagno, che mi ha raccontato la storia di questo scrittore, profondo conoscitore della cultura del mio paese di origine, la Polonia.
Non immaginavo nemmeno lontanamente di partire per un viaggio così ricco. Di storia, di arte, di letteratura e di racconti di vita.

Primo libro: “Chernobyl“. Meraviglioso saggio che, partendo dalla grande tragedia del 1986, mi ha portato alla scoperta della storia di questa terra, della sua cultura, dei suoi abitanti.
La scrittura è di quelle che conquistano: nello stile fluido e coinvolgente di Cataluccio è possibile ritrovare tutta la magia dei racconti orali. Quei racconti tramandati di generazione in generazione che parlano di vite meravigliose, luoghi, persone, imprese, ricordi e memorie.

Se “Chernobyl” è stato un colpo di fulmine, “Vado a vedere se di là è meglio” è stata la consacrazione della mia “passione” per Francesco M. Cataluccio.

“Vado a vedere se di là è meglio” è un carosello di storie di vita e di città, opere, leggende, poeti, scrittori, politici e artisti. La vita dei fratelli Singer, la storia del “pianista” di Varsavia durante l’occupazione nazista, il rapporto tra i gelati italiani e la Polonia, Anna Politkovskaja, i reportage di Ryszard Kapuściński e il cinema di Kieslowsky e Tarkovskij – ma anche Praga, Venezia, Budapest, Buenos Aires, Dublino e Mosca – sono solo alcune delle storie che si susseguono in questo emozionante vortice fatto di racconti. E il libro assume quella funzione che dovrebbe essere propria di ogni libro: spingere ad approfondire e a cercare nuove opere e nuove storie.

“L’ambaradan delle quisquiglie” è invece un suggestivo “abecedario” di storie autobiografiche dell’autore, condite anch'esse con bizzarri personaggi dell’Europa centrale, narrazioni, memorie, letteratura e storia.
Ogni parola dà vita a un racconto. Ma è anche uno spunto di riflessione sul vivere e sul raccontare.
Nonché lo stimolo per andare oltre e non smettere mai di scoprire. E, ovviamente, di LEGGERE.


Ovunque io sia di Romana Petri

Simili a un racconto attorno al camino, che rievoca storie di generazioni che si susseguono, le saghe familiari sono portatrici di una magia che da sempre affascina ogni lettore.
Questi libri trasformano la narrativa in espressione dell’evoluzione della società e degli uomini.
Mostrano ciò che cambia e ciò che rimane uguale, quello che si tramanda di gene in gene e quello che viene lasciato indietro.
Proprio in racconti così strutturati, storie di vita semplici diventano vere e proprie avventure, che ti accolgono, ti affascinano e ti fanno anche riflettere.

Se con “La casa degli spiriti” di Isabel Allende ho iniziato ad amare le saghe familiari, con “Ovunque io sia” di Romana Petri questo colpo di fulmine si è rinnovato.
Autrice italiana che vive tra Roma e Lisbona, Romana Petri ha scelto per il suo lungo e coinvolgente romanzo tre meravigliose protagoniste femminili.

Attraverso la storia di Ofelia, Margarida e Maria do Ceu, la scrittrice racconta i cambiamenti sociali e politici di una Lisbona affascinante, a partire dagli anni ’40 fino ai giorni nostri.
Nelle 600 pagine tutte da assaporare, si parla prima di tutto di maternità, del grande messaggio d’amore che una madre lascia al proprio figlio. Ma si parla anche, e soprattutto, dell’evoluzione della figura femminile nel corso del tempo. Le reazioni agli stessi comportamenti degli uomini, a distanza di anni, sono la rappresentazione perfetta di un cambiamento che spesso consideriamo scontato.

La dittatura e la rivoluzione fanno da sfondo agli avvenimenti personali vissuti dalle protagoniste. Tra passioni, matrimoni, tradimenti, dolori, sacrifici e grandi prove d’amore, Ofelia, Margarida e Maria do Ceu travolgono il lettore incollandolo alle pagine del romanzo.

All'affascinante storia si accompagna uno stile soave e poetico che accinge dal realismo per raccontare con grande eleganza le protagoniste e il contesto storico in cui si muovono.
E Ovunque io sia diventa il meraviglioso esempio di cosa può fare uno scrittore italiano quando decide di scrivere un libro davvero incantevole.

Marzi, molto più che una graphic novel




Frigoriferi vuoti, un solo prodotto alla volta nei negozi, scioperi notturni, un unico punto vendita americano dove acquistare Barbie e oggetti occidentali. Pochissimi apparecchi televisivi, rarissimi cartoni animati, i veri giochi dei bambini degli anni ’80, Chernobyl e la paura del nucleare. La religione, il Papa, il legame con le tradizioni, Solidarność e un popolo che non si arrende.

Acquistare un libro. Leggerlo e ritrovare tra le sue pagine la propria infanzia. Questo è per me Marzi. I miei primi 5 anni, ricordi nitidi che ancora conservo, sono esattamente quelli raccontati da Marzena Sowa.

L’autrice polacca emigrata in Belgio ha trasformato la sua infanzia in un racconto nitido e concreto, e Sylvain Savoia, suo compagno, ha tradotto parole e pensieri in immagini. Il risultato sono i due volumi di Marzi, graphic novel che narra la realtà polacca prima della caduta del muro di Berlino.

Una lente d’ingrandimento su cosa vuol dire vivere in un paese comunista. Un evidenziatore che traccia un percorso lucido che non cade nell’ovvietà o in un giudizio totalmente negativo o positivo, ma lascia al lettore la possibilità di capire se era meglio il passato o il presente.

Un fumetto, considerato il Persepolis polacco, che è più di un libro di storia. Sfogliare gli anni del comunismo, sfogliare la storia, mettendo da parte ogni conoscenza enciclopedica e aprendosi solo alla lettura della realtà: questo era l’obiettivo di Marzena Sowa. Obiettivo perfettamente raggiunto.

Questo è Marzi. E questa era la Polonia.

Questo post è apparso per la prima volta su Radio Pereira.