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24 marzo 2016

Pianeti di Dava Sobel: un sorprendente viaggio tra le meraviglie del cosmo



C’è tanta magia in questo breve libro, in ognuna delle sue 180 pagine, in ogni periodo e in ogni parola. C’è poesia nella sua scrittura, perché nulla è lasciato al caso, e ogni parola sembra studiata per raggiungere quell'armonia perfetta che solo l’Universo è in grado di esprimere.

"Pianeti" di Dava Sobel è bello, proprio come un cielo stellato.
I nove pianeti, più la nostra stella e il nostro amato satellite, prendono vita, si trasformano, si raccontano. Ci guidano alla scoperta dei processi fisici del nostro cosmo e della nostra origine. Ed è così che possiamo incontrare le Lune di Giove, volteggiare tra gli anelli di Saturno, ascoltare la storia del meteorite marziano che ha scelto la nostra terra come sua ultima dimora e lasciarci avvolgere dalla musica delle sfere. Ma non solo: possiamo anche esplorare le vite dei grandi scienziati e scoprire i contributi di letterati e musicisti nell'esplorazione dei misteri dell’Universo.

L’astronomia e l’astrofisica, l’astrologia e la tecnologia, la cultura, la storia e le missioni spaziali sono i contenuti che arricchiscono il libro, mentre la forma ricorda l’inafferrabile bellezza dei grandi classici.

Venere, l’amore, la bellezza e l’orbita pari alla gestazione umana; Saturno e la musica; la luna, la pazzia e l’invidia del nostro arido satellite nei confronti di un mondo ricco d’acqua: ogni capitolo del libro è dedicato a un corpo celeste collegato a un tema ben preciso sviluppato da una storia che è un piacere leggere.

Non mancano ovviamente specifiche più scientifiche sulla nascita e composizione dei nove pianeti. Per questo, Pianeti di Dava Sobel soddisfa perfettamente la nostra sete di conoscenza e di bellezza.

22 marzo 2016

Underground with Murakami

Una vita passata a leggere manga ha provocato in me un effetto collaterale presente ancora oggi: un grande amore per la cultura giapponese. Nel tentativo di non tradire mai questa passione, ho dedicato i miei ultimi ad alcuni autori contemporanei, tra cui Haruki Murakami.

Scrittore completo, realistico e allo stesso tempo onirico e fantasioso, rende giustizia alla cultura giapponese superando di gran lunga l’ormai banale positivismo di Banana Yoshimoto.

Dotato di una scrittura intelligente, capace di scegliere temi profondi e analizzarli con concretezza, Murakami riesce a raccontare le sue storie componendo con le parole. Le sue frasi diventano spartiti perfettamente incastrati tra loro che raccontano i vari lati della vita giapponese. Ed è proprio grazie a questa capacità che Murakami è riuscito anche a scrivere un libro come Underground.

Questo libro non è un romanzo, ma un saggio-intervista che racconta gli attentati alla metropolitana di Tokyo del 1995, quando i membri della setta giapponese Aum Shinrikyo hanno diffuso gas nervino nei scomparti dei treni durante l’ora di punta. L’attentato uccise 12 persone, intossicandone poi migliaia.

Murakami, spinto da una voglia di indagare la realtà dei fatti approfondisce l’avvenimento intervistando sia le persone che hanno subito l’attentato che alcuni esponenti della setta stessa.

Il libro si divide infatti in due parti: la prima, a sua volta divisa in cinque parti come le cinque linee colpite, racconta il punto di vista delle vittime. La seconda è invece dedicata agli ex-adepti di Aum Shinrikyo.
Comprensione ed empatia caratterizzano la prima parte, mentre rabbia, incapacità di comprendere e allo stesso tempo una velata umanità sono i punti chiave della seconda.

Di fronte agli ex-membri della setta, lo scrittore è quasi più arrabbiato perché non soddisfa la sua sete di comprensione, ma allo stesso tempo comprende che queste storie hanno in comune un forte disagio nei confronti della società che viene colmato dal ruolo che svolge il fanatismo religioso.

Le descrizioni minuziose e i racconti ricchi di spunti permettono a Murakami di approfondire i lati negativi della società giapponese, il ruolo della religione, i livelli di responsabilità e anche criticare i sistemi del paese, dai trasporti alla sanità fino ad arrivare ai mass media. E non solo, l’esperienza delle vittime permette di capire meglio la vita di un giapponese medio, il suo modo di vedere il mondo e di vivere gli avvenimenti.

Tanti approfondimenti che non chiudono la vicenda, ma che lasciano un finale quasi aperto che può essere colmato solo dalle riflessioni del lettore. Perché, per quanto il gesto sia sempre e comunque ingiustificabile, in questo e in altri casi esistono sempre dei sentori (la sete di potere dei governi e il loro finto interesse per il popolo, i numerosi problemi della società, l'arroganza delle religioni che vogliono imporre il loro credo, fisicamente o psicologicamente; il disagio dei giovani) che troppo spesso sono ignorati.

21 marzo 2016

Diversamente disabili: due libri che parlano di handicap

La disabilità di un figlio vista con gli occhi del padre e le disabilità di donne e uomini viste attraverso le loro esperienze.
Handicap differenti che generano emozioni differenti. Tutte reali, tutte da analizzare.

Da un lato c’è la voglia di combattere contro tutto e tutti, volontà resa possibile solo dal tipo di handicap capitato. Dall'altro lato c’è impotenza e rabbia disperata, da non confondere con l’egoismo.

Nel libro "Zigulì", Massimiliano Verga punta letteralmente un faro su noi tutti. E ci racconta, attraverso le sue parole – a volte disperate, a volte ironiche, a volte profondamente arrabbiate – quanto possa essere difficile convivere con un figlio disabile.

Le pagine si susseguono e le riflessioni assumono dei contorni talmente reali che superano ogni ipocrisia. La convivenza tra Verga e il figlio dal "cervello grosso quanto una zigulì" non ha un perché e nemmeno una soluzione. Diventa semplicemente un susseguirsi di azioni abituali che non portano a nulla ma che il padre vorrebbe portassero a qualcosa. Una storia disperata tanto vera e reale che scuote.

Verga non opta per "i figli sono comunque sempre un dono", ma spiega e giustifica il suo dolore, la sua impotenza e la sua rabbia di fronte allo stato psico-fisico compromesso del figlio. Una testimonianza importante che apre gli occhi più di quanto potrebbe fare qualsiasi altro racconto, consiglio, o storia "per sentito dire".

Stessa tematica in parte, altro modo di affrontarla, è quella del libro "E li chiamano disabili" di Candido Cannavò. Sedici le storie di questo volume, che racconta di uomini e donne ciechi dalla nascita, costretti sulla sedia a rotelle o senza braccia come la ballerina e pittrice Simona Atzori.

Vite difficili e complesse affrontate con coraggio e forza vitale che hanno portato queste sedici persone a fare della lotta per raggiungere i propri obiettivi la loro ragione di vita.
Ma forse è proprio questo il punto comune di questi libri: la forza.
Forza come capacità di affrontare le difficoltà.
Forza come rabbia verso una situazione incomprensibile.
Forza come voglia di esprimere attraverso un libro tutte le proprie emozioni.
Forza come coraggio nel continuare ad assumersi delle responsabilità sperando, anche debolmente, in qualcosa.
E questo vale anche per Verga.

18 marzo 2016

Una ragazza da Tiffany

In Italia abbiamo un problema: non siamo capaci di creare bei titoli per film e romanzi stranieri. Come "Eternal Sunshine of the Spotless Mind" è stato tradotto in "Se mi lasci ti cancello", così "Clara e Mr. Tiffany" si è trasformato nel più banale "Una ragazza da Tiffany", un titolo che evoca libri come "Bridget Jones" o "I love Shopping", non rendendo giustizia al contenuto reale del volume.

Veloce da leggere, con uno stile senza pretese, "Una ragazza da Tiffany" di Susan Vreeland non è probabilmente Anna Karenina ma, nella sua semplicità, riesce a raccontare la donna e il suo rapporto con il lavoro in maniera profonda e riflessiva.

Ambientato dalla fine dell’800 ai primi del ‘900, il libro parla del passato meno conosciuto del marchio Tiffany e, più in generale, della condizione lavorativa della donna in quegli anni.

La storia ha come protagonista il mondo di Louis Comfort Tiffany, direttore artistico di quella che è oggi un’azienda di gioielli, e Clara, giovane donna emancipata che ha (realmente) creato i suoi oggetti più belli. Tiffany nasce infatti come azienda che produce oggetti artistici in vetro, soprattutto lampade e mosaici, realizzati dal genio e dalla passione di Clara.

La sua figura ci mette però di fronte ad altri aspetti più interessanti: il primo è la condizione della donna agli inizi del secolo, quando non era concepibile che potesse lavorare, soprattutto se sposata. Clara, a capo del reparto femminile di Tiffany, si trasforma presto in un’eroina che lotta contro i sindacati che vorrebbero proteggere esclusivamente i lavoratori. Combatte per proteggere le sue dipendenti, per aiutarle a non perdere il lavoro e non farsi schiacciare dal maschilismo imperante della società.

Secondo punto del romanzo è la bellissima descrizione dell’amore per il lavoro artigianale. Come Mr. Tiffany non voleva produrre in serie le sue creazioni in quanto ognuna era “figlia” della persona che la ideava e realizzava, e per questo unica, così Clara plasmava i suoi capolavori con attenzione e cura. In un mondo dove la scarsa qualità è la regola e la produzione in serie è la base di tutto, riscoprire l’emozione della manualità e del processo creativo fatto a regola d’arte è un momento stimolante per chi crede ancora nel lavoro di qualità.

Altro aspetto indagato dal libro è sempre un omaggio al buon lavoro. Quello che fa Clara durante le ore di lavoro, creare qualcosa di bello, alimenta poi la sua stessa personalità insegnandole ad ammirare la bellezza del mondo, sia essa un tramonto o un giardino.

L’ultimo aspetto del romanzo sul quale val la pena riflettere è forse quello più importante, anche se non va letto come elemento in contrasto con quanto detto. Il lavoro, anche quello più bello e appassionante, non può e non deve costringere a sacrificare amore, amicizia e famiglia.
Anche se oggi noi donne non siamo costrette a scegliere (non direttamente almeno) tra “matrimonio e lavoro”, come succede ad alcune protagoniste del libro, dobbiamo comunque imparare a trovare un equilibrio tra ogni aspetto della nostra vita.

Non stakanoviste, non menefreghiste, ma persone in grado di trasformare le ore passate al lavoro e quelle nel proprio privato come carburante per alimentare la ricchezza della nostra personalità.
E’ un percorso difficile, ma necessario.

14 marzo 2016

I libri di Arto Paasilinna


Se i Beatles fossero ancora tra noi dedicherebbero sicuramente una canzone al buon Arto Paasilinna. E la melodia sarebbe allegra e piena di brio, in stile "Yellow Submarine" o "Here comes the Sun". Perché i libri di Paasilinna sono belli come una giornata di sole e soavi come una foglia che danza con il vento.

Immaginate una banda di aspiranti suicidi in giro per la Finlandia alla ricerca del luogo giusto per "passare oltre".
Capitanati dal colonnello Kemppainen, frustrato da un’epoca troppo pacifica, gli indimenticabili personaggi si muovono in lungo e largo a bordo di un bus di lusso, tra avventure bizzarre, pittoreschi incontri e un folle nemico che li insegue per tutto il romanzo: la vita.
Poi, immaginate un giornalista impegnato in un lungo viaggio in compagnia del suo migliore amico: una deliziosa lepre. Anche in questo caso tra avventure, invenzioni picaresche e paradossali fughe.

Se questo non basta, provate a pensare a un reverendo con una moglie dispotica e un cucciolo d’orso ricevuto in dono per il compleanno che, nel suo annus horribilis, decide di mollare tutto e partire in compagnia del suo animaletto. Animaletto adeguatamente formato per gestire faccende domestiche e svolgere riti religiosi, e così educato da fare i suoi bisogni nel water.

Ecco, questo è Arto Paasilinna. E questi sono "Piccoli suicidi tra amici", "L’anno della lepre" e "Il miglior amico dell’orso".

Le storie di Paasilinna rallegrano, divertono e intrattengono, raccontando di quelle cose essenziali troppo spesso invisibili agli occhi. Parlano di natura, sostenibilità, relazioni umane, sentimenti e vita. Sono storie a lieto fine che hanno in comune qualcosa di molto importante: il percorso dell’uomo nel tentativo di riscoprire se stesso e il senso della felicità. Non a caso il luogo di nascita di questo scrittore è il paese del sole a mezzanotte!

Che dire poi della scrittura di un finlandese capace di trattare con garbo e ironia un argomento come il suicidio? È limpida e scorrevole, proprio come uno dei fiumi che i protagonisti sono costretti ad attraversare.

Ma i racconti di Paasilinna sono sì imperdibili capolavori di comicità, ma anche romanzi che lasciano il segno, facendoci riflettere sul nostro rapporto con la natura e la vita in generale. Sono storie di vita che racchiudono tra le loro righe un messaggio vero e importante.

D'altronde, non è forse vero che la verità si dice scherzando?

Riscoprire Enzo Biagi



Riscoprire Enzo Biagi e capire che nulla è cambiato. Tuffarsi nell'Italia degli anni ’90 e ritrovare pregi e difetti (forse più difetti che pregi) dei giorni nostri. "I come Italiani" è l’attualità del passato che combacia quasi perfettamente con il presente.
È una lettura che pone un limite alla speranza nei confronti del futuro. Se in 20 anni non solo le cose non sono cambiate, ma sono anche peggiorate, riusciremo a migliorare? Avremo mai una classe politica decente? Riusciremo a essere onesti e dotati di buon senso non solo a parole, rinunciando ad esempio a favoritismi e raccomandazioni?

"I come Italiani" è un saggio composto da brevissimi articoli strutturati in ordine alfabetico che raccontano, con un’ironia sottile e delicata, un popolo molto particolare: il nostro.

A come amore, B come Berlinguer e Bongiorno, C come cattolici, M come Milano, mamma e Mattei, V come Verginità e Vu’ cumpra’, tutto ciò che è associabile al popolo italiano trova posto nel libro di Enzo Biagi.

Sarei bugiarda se non ammettessi che vengono anche raccontati i lati positivi degli italiani, incarnati da personaggi come Eduardo De Filippo, Falcone, Fellini e dalla bellezza delle città italiane, ma purtroppo rimangono più impressi quelli negativi. Ed ecco che l’Italia degli anni ’90 è formata da un popolo di credenti ma non abbastanza per seguire correttamente i precetti della propria religione, un popolo di personaggi animati da una forte utopia ma incapaci di cambiare i propri difetti. Primi fra tutti la forte propensione alla raccomandazione, ai favoritismi e all'evasione fiscale.
Proprio quest’ultima trova posto, a più riprese, in vari capitoli del libro e viene considerata non a caso uno dei peccati inconfessabili dell’italiano, che preferisce dichiarare tradimenti e peccati sessuali ma non quello che ha nel suo forziere.

Vista l’attualità dell’argomento, è buffo, ma solo a parole, scoprire tra le pagine del libro le dichiarazioni dei redditi degli anni ’90 di architetti, gioiellieri e medici e non trovare alcuna differenza con un articolo di denuncia del Fatto Quotidiano. Un concetto che lascia intendere che non ci sia troppa speranza per il futuro degli onesti.

Nel libro di Biagi, l’unico personaggio che manca è però Berlusconi. Ma quando i lati più negativi degli italiani vengono allineati e vivisezionati dalla penna del giornalista, il suo spirito aleggia quasi ad anticipare l’ascesa di colui che li incarnerà tutti, nessuno escluso.

Dalla A di Aids alla Z di Zotico, ecco l’Italia degli anni ’90, che è come l’Italia del 2016, forse un po’ meglio.

13 marzo 2016

Ipocondria fantastica

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"Non c’è una vera causa per la sua malattia, probabilmente è lo stress."  Alzi la mano chi non si è mai dovuto confrontare con questa frase. Se non avete alzato le mani, siete fortunati.
Se l’avete fatto, non potete perdervi il libro di cui sto per parlare.

In un mondo dove il corpo si ribella a uno stile di vita complicato creando nuove malattie dai nomi impossibili, nasce il libro di Marina Mander "Ipocondria Fantastica".

La malattia, grande tema che ha attraversato tutte le arti e in particolare la letteratura, si trasforma nelle 125 pagine del libro in argomento paradossale. E il risultato è un libro imperdibile che raccoglie una serie di esilaranti racconti dedicati alle malattie contemporanee.

Uno stile piacevole e creative invenzioni linguistiche che sfociano in surreali doppi sensi trasformano il libro in un momento di puro divertimento che svaga fino a quando non scopriamo che queste patologie sono più vicine a noi di quanto pensassimo

Dall’artrosi alla sindrome di Pickwick, che porta il protagonista della storia a divorare romanzi d’amore. Dalla somatofrenia fantastica alla coprolalia, fino ad arrivare a cleptomania e psittacosi: malattie realmente esistenti che i protagonisti affrontano in modo accanito attraverso rimedi fantastici e che servono alla scrittrice per raccontare in modo affettuoso le nostre ansie quotidiane e le loro conseguenze.

"Nell’era delle malattie auto-immuni in cui il corpo si fa male da solo", Ipocondria fantastica diventa uno straordinario modo per fare i conti con il nostro modo di vivere.

Vivamente consigliato a chi ha avuto il dubbio, almeno una volta nella vita, di essere un malato immaginario.

10 marzo 2016

Racconto dopo racconto 1: L’amore dietro un vetro di Massimo Conti



Prima ci ha regalato due libri bellissimi, "Traversine" e "Il mare non ti parlerà", poi un'incantevole chiacchierata tra libri, ricordi e speranze per il futuro. Questa volta, Massimo Conti ha deciso di stupirci, donando a me e soprattutto a voi qualcosa di speciale: un bellissimo racconto. Buona lettura da parte di entrambi.

Mia madre non mi ha lasciato nessuna eredità, solo questa storia dimenticata da tutti. Quello che sto
per narrare probabilmente non interesserà a nessuno. Ho già tentato più volte di raccontarla importunando sconosciuti seduti al bar o sulla panchina del parco, sempre però con molta discrezione da parte mia. Invariabilmente, dopo alcuni minuti, i miei interlocutori con una scusa salutano e se ne vanno. Strano, perché è una storia di un grande amore. Ci provo comunque un’altra volta con voi. Ogni giovedì sera dopo cena, quando mio padre usciva con gli amici, mia madre mi chiamava accanto a sé. Accovacciato ai piedi della poltrona vicino alla finestra, dove lei lavorava a maglia, rimanevo in attesa delle prime parole; sempre le stesse: “Sai, Guglielmo, un amore puro può 
durare in eterno nutrendosi anche solo di silenzi”.
Sinceramente non capivo bene cosa significasse. Mi piaceva però il suono di quella frase, di cui afferrai pienamente il significato anni dopo, e l’intimità che si creava in quel momento tra noi. Conoscevo la fine della storia, ma ne ero affascinato comunque: mia madre l’arricchiva ogni volta di nuovi dettagli. Nelle fasi cruciali del racconto abbandonava per un momento i ferri da calza e con larghi gesti, alzando il tono della voce enfatizzava una scena a lei particolarmente cara. Poi, prima di continuare, scrutava sul mio volto l’esito della sceneggiata. Io sorridevo colmo di gratitudine per quella melodrammatica interpretazione. Mamma li chiamava, semplicemente, Lui e Lei, con un timbro di voce come li indicasse coi loro nomi di battesimo.
Lavoravano entrambi dietro un vetro: lei alla stazione, in biglietteria; lui al cinema Odeon. A lei piacevano i film d’amore; lui, col treno, andava a trovare una vecchia zia, unica parente in vita, nella città vicina.
Si conobbero un giorno qualsiasi, uno dei tanti passati a vendere biglietti ad estranei, quando scoprirono quel loro destino comune: l’uno vendeva all'altro un po’ di felicità e di momentaneo svago sotto forma di rettangolini di carta. Quei biglietti divennero messaggi d’amore cifrati. Mamma supponeva che entrambi li avessero conservati per molto tempo, come fossero lettere d’amore. Anche a me piaceva pensarlo.
Un’andata e ritorno in seconda classe: quel giorno lui indossava il gabardine chiaro; come gli donava. Via col vento: una lunga fila alla cassa; lui sorridente che alza la testa e incrocia il suo sguardo.
Dopo il loro primo incontro per anni scambiarono solo poche parole, sempre le stesse:
-“Buongiorno. Un biglietto di seconda classe per Senigallia.”
-“Ecco a lei.
-“Grazie e arrivederci
-“Buonasera.
-“Uno, galleria”.
-“Sono 300 lire”
-“Ecco il resto”.
-“Arrivederci”.
Non erano state certo quelle frasi di cortesia a destare la curiosità di entrambi e l’interesse dell’uno verso l’altro. Gli occhi di lei erano di un azzurro opalescente. Nel ringraziare sorrideva; sulle sue guance, appena colorite dal fondotinta, si formavano due piccole fossette: le aveva notate da subito e ne era rimasto molto colpito. Le mani piccole ma dalle dita affusolate si muovevano agili sfiorando con grazia i tagliandi FS.
D’inverno le proteggeva dal freddo tenendole calde in guanti di lana colorati. Spesso per afferrare il biglietto del cinematografo, di carta sottile, che lui gli passava da sotto il vetro, doveva sfilarli entrambi. Lo faceva lentamente, con grazia; le persone in fila si spazientivano un poco ma per lui quel momento rappresentava l’unica degna conclusione di una giornata altrimenti noiosa e uguale a tante altre. Fu invece il tono basso dal timbro seducente della voce ad attirare l’attenzione di lei. Quella mattina, dietro lo sportello della biglietteria della stazione, alzando la testa dal registro incontrò il volto di un uomo pensieroso dalla fronte alta, un  accenno di calvizie, che chiese con la sua bella voce:
 -“Buongiorno. Un biglietto di seconda classe per Senigallia.”
Poi, come dicevo, per anni solo quelle poche scambi di battute venate di cortesia. Ma tra loro era nato qualcosa. I loro appuntamenti avevano la regolarità di un orologio svizzero: lui, il lunedì, in stazione; lei, il giovedì, al cinema. Si alternavano dietro lo sportello donandosi un poco di amore reciprocamente compiendo un gesto banalissimo: strappare un biglietto. Presto i loro cassetti si riempirono di cartoncini colorati. All'insaputa l’uno dell’altro l’uomo e la donna appuntavano su quei talloncini commenti e osservazioni come: “Film pessimo e poi oggi mi sembrava triste”; “Non
mi ha guardato come fa altre volte”. Oppure: “Questo è il cinquantesimo biglietto per Senigallia: è il nostro anniversario”. La scrittura di lei era minuta e accurata; lui usava una grafia dal segno corposo. A questo punto della storia mamma posando il lavoro a maglia sopra il tavolino liberate le
mani mia madre mimava un fuoco d’artificio dicendo contemporaneamente:
-“Puf”. Gli occhi mi si inumidivano ogni volta, sentendola proseguire.
-“Puf. Un giorno lei trovò una donna anziana, mai vista prima, a vendergli il biglietto dell’ultimo film di De Sica. E a lei il lunedì successivo nessuno chiese una terza classe per Senigallia”.
Man mano che crescevo il mio interesse per quella storia andò scemando. Mia madre se ne accorse e al principio ne fu dispiaciuta: stava perdendo l’unica persona interessata a quella stramba vicenda.
Io preferivo ascoltare la radio  o uscire a giocare a calcio con gli amici. Poi arrivò mio figlio a cui passai il testimone; fu svezzato dalla nonna con quel racconto. D’altra parte, nel frattempo, l’aggravarsi della demenza senile di mia madre si era portata via assieme ai ricordi anche la storia
di quei due. Ne ero rimasto l’unico depositario. La malattia se la portò via in pochi anni. Quei biglietti rossi con su scritto Cinema Odeon  li aveva conservati  tutti dentro una busta. L’eredità di mia madre; scoperti dopo la sua morte in un  cassetto nascosti sotto un taglio di stoffa. Porto quei rettangolini di carta sempre con me per mostrali  come prova  a chi ha la pazienza di starmi ascoltare: ma invano. Dopo un po’ scrollano le spalle e parlano d’altro.

09 marzo 2016

Vergogna di J.M. Coetzee

Nel libro Vergogna di J.M. Coetzee, il razzismo sceglie un'altra direzione rispetto a quella che vede contrapposti i "divini bianchi" o i "divini occidentali" a chiunque non sia altrettanto "perfetto".
Qui è una coppia caucasica, padre e figlia, a dover fare i conti con il razzismo sudafricano post-apartheid.

Ambientata nella Provincia del Capo, la storia prende il via quando il cinquantaduenne professore universitario David Laurie viene denunciato da una sua allieva (con cui ha una relazione) per molestie sessuali. Licenziato, trova conforto nella fattoria gestita della figlia Lucy.
Qui la vita inizia a trovare un senso per David, che in questo piccolo angolo di paradiso si dedica alla scrittura e riscopre l’amore per gli animali, grazie anche all'aiuto che inizia a dare in una clinica veterinaria. Ma la situazione cambia il giorno in cui alcuni individui saccheggiano la fattoria e riversano su David e Lucy un fiume di inaudita violenza. Questa è la tassa che deve devolvere una donna per la sua indipendenza, questo è il prezzo che deve pagare un bianco in un Sudafrica trasformato dopo l’apartheid.

Il razzismo e la disuguaglianza tra persone che respirano nello stesso modo diventa quindi il tema principale di un romanzo condito con una scrittura leggera e pulita, quasi essenziale.
L’impressione che resta, e che forse trascende la bellissima descrizione della psicologia dei personaggi, è vergogna. Vergogna per cosa può fare l’uomo. E per quanto sia inutile rispondere alla violenza con altra violenza.

È la stessa sensazione che ho provato quando ho sentito dire che "l’olocausto è giusto alla luce di quello che gli israeliani hanno fatto poi" oppure quando ho letto la storia del pugile Muhammad Ali e i capitoli di "Padroni del Mondo" di Enzo Biagi dedicati a Malcom X. Tutti questi personaggi volevano rispondere al razzismo con lo stesso razzismo.
Violenza e vergogna sono due “V” concatenate. Solo che l’unico rapporto di causa-effetto possibile dovrebbe essere che la prima provoca la seconda, e non viceversa.

07 marzo 2016

Nel paese delle ultime cose di Paul Auster



A raccontare il futuro della società ci avevano già provato Orwell con il suo “1984”, Aldous Huxley con “Il Mondo Nuovo” e Ray Bradbury con “Fahrenheit 451”. E tutti e tre sono stati premonitori.
In tempi più recenti, ci ha provato anche Paul Auster, scrittore americano conosciuto soprattutto per la sua “Trilogia di New York”.

“Nel paese delle ultime cose”, suo romanzo del 1996, ha come protagonista Anna, giovane donna che si reca in un paese sconosciuto e innominabile in cerca del fratello giornalista misteriosamente scomparso. È lei che racconta la storia sotto forma di lettera destinata a chi è rimasto nel “mondo normale”.

Caratterizzato da un’atmosfera carica di crudeltà e dramma, il paese delle ultime cose toglie il cibo e regala violenza, lascia vivere le persone per strada in condizioni disumane. Qualcuno si lascia morire, altri vengono ingiustamente assassinati.

In questa terra glaciale e brutale, simile a un moderno inferno dantesco, cose e persone semplicemente si estinguono. Infatti tutto, giorno dopo giorno, sparisce e cade nell’oblio senza che nessuno possa anche rendersene conto o ricordarsi della passata esistenza.

Tutto è precario, e l’unica cosa certa che rimane la morte.

La scrittura stessa di Auster diventa man mano sempre più claustrofobica, asciutta, ridotta fino a scomparire. Come uno dei personaggi costruisce barche da mettere in bottiglie di vetro sempre più piccole, così i sentimenti e anche il coraggio di raccontare le efferatezze che circondano i protagonisti si rimpiccioliscono man mano fino a scomparire.

Un sentimento che possiamo ritrovare anche nel contemporaneo, dove comportamenti senza valori a cui assistiamo ogni giorno non trovano quasi più parole per essere descritti.
Nel Paese delle Ultime cose, la speranza viene promessa e poi continuamente distrutta, e con essa la dignità, i valori e l’individuo stesso.
Ed è così che il romanzo si trasforma in un’analisi preoccupante della società odierna che racconta la disgregazione e la precarietà dell’esistenza umana.

Poche pagine ma un’intensità coinvolgente. Da leggere con attenzione.

Democrazia secondo Massimo Fini

I libri di Massimo Fini, pensatore prima che giornalista, filosofo osservatore della realtà più che semplice scrittore, sono difficili da trattare poiché presuppongono un notevole lavoro di diplomazia, vista la natura pungente della sua penna.
Detto in parole semplici, Massimo Fini è una persona che non le manda a dire. Ma proprio per questo è capace di un’analisi coerente e approfondita della realtà che non può non far riflettere, anche chi la pensa diversamente. Ma veniamo ai libri. Sono due i testi che ho letto: “Sudditi” e “Il Vizio Oscuro dell’Occidente”. Si tratta di saggi brevi, veloci da leggere, che esprimono in modo chiaro e lucido due tesi legate alla contemporaneità. Tesi che si trasformano in un’occasione unica per stimolare il pensiero e la riflessione sul mondo che ci circonda.

Nel primo, “Sudditi”, il giornalista critica la democrazia contemporanea, o meglio la sua presunzione di essere tale. La ritiene una finzione, un regime che vive con il consenso dei cittadini, un vero e proprio metodo di oppressione abilmente mascherato.
Democrazia vuol dire governo del popolo, ma quando mai il popolo ha realmente governato, e realmente è stato rappresentato dalle persone che ha scelto?

La democrazia è un sistema che poggia su una libertà di voto che non corrisponde alla reale possibilità di decidere, su una politica che è contenitore vuoto basato su scambi di voti, acquisto di parlamentari e soprattutto persone mediocri che parlano cercando appunto di rimbecillire i loro “sudditi”. Infine, secondo il giornalista, la democrazia intende la libertà come espressione dell’individualismo e non dell’eguaglianza. La libertà diventa in questo senso semplice possibilità di ottenere uno status, avere un oggetto, avere soldi, a qualsiasi costo. E questo crea una disuguaglianza ancora peggiore tra ricchi e poveri.

Con “Il Vizio Oscuro dell’Occidente” facciamo un passo fuori dall'Italia, parlando della forsennata esportazione della democrazia ai paesi considerati “sottosviluppati”, soprattutto da parte degli Stati Uniti.
L’America si auto-identifica come bene assoluto e questo la porta a fare una cosa molto semplice: colonizzare esportando le proprie convinzioni e la propria cultura. Questo pensiero può essere sintetizzato dal passaggio in cui Fini spiega che l’Africa stava meglio prima, perché era autosufficiente. Con l’arrivo degli occidentali, la produzione è aumentata ma il cibo non è andato dove c’era fame, ma a sfamare le ricche tavole degli occidentali.

In realtà, questa è solo una parte delle cose che dicono i libri di Fini, ma l’unico modo per recensirli in modo adeguato sarebbe copiarli. Non vi resta, dunque, che leggerli.