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12 gennaio 2022

Chernobyl 2: Io, Francesco Matteo Cataluccio e Svetlana Aleksievic

Nell'aprile del 1986 avevo quattro anni. Abitavo in Ulica Bonerowska a Cracovia, a 862 chilometri da Chernobyl.
Difficile partire dai miei ricordi, perché sono pochi e forse non nitidi. Tuttavia, nel corso degli anni, si sono uniti a quelli reali di mamma, nonna e altri parenti, quasi a creare una coscienza comune e un'idea unica a proposito del disastro. Io qualcosa però ricordo, ad esempio il mio ricovero in ospedale, dopo l’esplosione del reattore, per una violenta forma di tracheite che mi ha accompagnato fino all’età di dieci anni.

Mia madre e mia nonna però si ricordano molto. Si ricordano che l’avviso di non mangiare frutta e verdura, e non bere acqua dal rubinetto, è arrivato tardi. Troppo tardi. Si ricordano dell’amica di mia mamma, che ha partorito a luglio una bambina con i denti neri. Si ricordano del ritorno del tumore di mia nonna. Si ricordano di quali effetti ha avuto il disastro sulla loro tiroide. Si ricordano che lo iodio era difficile da trovare se non avevi in famiglia un dirigente del partito. Si ricordano storie, si ricordano volti, e si ricordano che nessuno – ma proprio nessuno – è uscito completamente sano da quel periodo.
A Cracovia, l’attività radioattiva al suolo arrivò fino a 360.000 Bq/m2. Il valore massimo in una situazione normale è circa 150 Bq/m2.

Quando ho pubblicato per la prima volta queste parole, una persona mi ha attaccato nei commenti. Dal calduccio della sua casetta, e senza aver vissuto nei paesi dell'Est in quel periodo, riteneva il mio articolo una "storia della nonna perfetta attorno a un camino". Perché? Perché i dati ufficiali  raccontavano (e raccontano) altro.

A distanza di cinque lunghi anni, finalmente posso suggerire a questo indimenticabile personaggio di farsi una cultura con due letture molto complete e obiettive. Non scritte da mia nonna, ma da due autori che forse riterrà più autorevoli di me. Parlo di "Chernobyl" di Francesco M. Cataluccio e "Preghiera per Cernobyl'" di Svetlana Aleksievic. 

Il primo è un romanzo di memorie che ci svela la storia di quel luogo abbandonato e del suo popolo. Ci consente, in poche parole, di dare un'identità e un carattere ai luoghi del disastro e alla sua gente, che tanto ha dovuto soffrire anche prima del 26 aprile 1986.
"Chernobyl" è un racconto di viaggio che parte nel 1193 e arriva fino ai giorni nostri, per aiutarci a capire cos'era quest'angolo del mondo e perché fu eletto per sperimentare la cancellazione del diritto di narrare la propria storia.


Nel suo straordinario libro, Cataluccio in due occasioni cita Svetlana Aleksievic, giornalista ucraino-bielorussa che ha raccontato la tragedia nel suo "Preghiera per Cernobyl'". E allora, visto che un libro apre sempre un altro libro, l'ho letto. Anzi, l'ho vissuto, perché il libro della Aleksievic ti porta lì, tra questi sopravvissuti a metà. 

"Preghiera per Cernobyl'" è un intenso libro di dialoghi, dove emerge tutta la cruda realtà di quello che noi possiamo solo immaginare. A parlare sono persone di ogni estrazione sociale: contadini, soldati, pompieri, madri, docenti universitari, liquidatori, cineoperatori, medici, ingegneri, storici, mogli, insegnanti, credenti, atei e, soprattutto, tantissimi devoti alla "religione comunista".
Voci solitarie che finalmente possono narrare senza paura dei loro morti e dei figli malati, delle risposte che non hanno ricevuto, dei corpi che non hanno potuto seppellire e delle bugie del governo. Sono storie diverse, ma nessuna di queste ha un finale felice. Perché Chernobyl ha avvelenato le loro vite e il loro tempo. E anche il nostro tempo.