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02 luglio 2022

A proposito di Wisława Szymborska


Parlare della poetessa polacca Wisława Szymborska mi risulta difficile. Qualunque combinazione di parole, anche la più ricercata, impallidisce al cospetto di ogni suo scritto, che sia una poesia più o meno lunga, un breve estratto del suo discorso di accettazione del premio Nobel (come dimenticare la frase “L'ispirazione, qualunque cosa sia, nasce da un incessante 'non so'"?) oppure una lesta e ironica recensione di una “lettura facoltativa”.
La sua grazia, nella capacità di trovare i vocaboli giusti per ogni concetto e nel suo modo d’essere, è da sempre modello di riferimento per me. Tanto che “La Gioia di Scrivere”, la raccolta delle sue poesie pubblicata da Adelphi, è da innumerevoli anni ospite fissa sul mio comodino. Come lettura in cui naufragare, come ispirazione, come presenza silenziosa che mi ricorda verso quali belle parole rivolgere lo sguardo.

Per fortuna non è compito di questo amatoriale articolo analizzare la sua poetica dell'esistenza o scandagliare i suoi versi. Ma il dilemma rimane lo stesso: come parlare di una poetessa che ha fatto innamorare di sé, tra gli altri, Ferzan Ozpetek, Roberto Saviano, Umberto Eco e Roberto Vecchioni (che le ha anche dedicato una canzone)? Come raccontare in circa tremila caratteri tutte le sfumature dell’animo di un artista? Parrebbe un’impresa titanica per ogni amante delle belle parole, forse simile al tentativo di contenere in una piccola stanza tutto lo scibile umano.