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10 marzo 2016

Racconto dopo racconto 1: L’amore dietro un vetro di Massimo Conti



Prima ci ha regalato due libri bellissimi, "Traversine" e "Il mare non ti parlerà", poi un'incantevole chiacchierata tra libri, ricordi e speranze per il futuro. Questa volta, Massimo Conti ha deciso di stupirci, donando a me e soprattutto a voi qualcosa di speciale: un bellissimo racconto. Buona lettura da parte di entrambi.

Mia madre non mi ha lasciato nessuna eredità, solo questa storia dimenticata da tutti. Quello che sto
per narrare probabilmente non interesserà a nessuno. Ho già tentato più volte di raccontarla importunando sconosciuti seduti al bar o sulla panchina del parco, sempre però con molta discrezione da parte mia. Invariabilmente, dopo alcuni minuti, i miei interlocutori con una scusa salutano e se ne vanno. Strano, perché è una storia di un grande amore. Ci provo comunque un’altra volta con voi. Ogni giovedì sera dopo cena, quando mio padre usciva con gli amici, mia madre mi chiamava accanto a sé. Accovacciato ai piedi della poltrona vicino alla finestra, dove lei lavorava a maglia, rimanevo in attesa delle prime parole; sempre le stesse: “Sai, Guglielmo, un amore puro può 
durare in eterno nutrendosi anche solo di silenzi”.
Sinceramente non capivo bene cosa significasse. Mi piaceva però il suono di quella frase, di cui afferrai pienamente il significato anni dopo, e l’intimità che si creava in quel momento tra noi. Conoscevo la fine della storia, ma ne ero affascinato comunque: mia madre l’arricchiva ogni volta di nuovi dettagli. Nelle fasi cruciali del racconto abbandonava per un momento i ferri da calza e con larghi gesti, alzando il tono della voce enfatizzava una scena a lei particolarmente cara. Poi, prima di continuare, scrutava sul mio volto l’esito della sceneggiata. Io sorridevo colmo di gratitudine per quella melodrammatica interpretazione. Mamma li chiamava, semplicemente, Lui e Lei, con un timbro di voce come li indicasse coi loro nomi di battesimo.
Lavoravano entrambi dietro un vetro: lei alla stazione, in biglietteria; lui al cinema Odeon. A lei piacevano i film d’amore; lui, col treno, andava a trovare una vecchia zia, unica parente in vita, nella città vicina.
Si conobbero un giorno qualsiasi, uno dei tanti passati a vendere biglietti ad estranei, quando scoprirono quel loro destino comune: l’uno vendeva all'altro un po’ di felicità e di momentaneo svago sotto forma di rettangolini di carta. Quei biglietti divennero messaggi d’amore cifrati. Mamma supponeva che entrambi li avessero conservati per molto tempo, come fossero lettere d’amore. Anche a me piaceva pensarlo.
Un’andata e ritorno in seconda classe: quel giorno lui indossava il gabardine chiaro; come gli donava. Via col vento: una lunga fila alla cassa; lui sorridente che alza la testa e incrocia il suo sguardo.
Dopo il loro primo incontro per anni scambiarono solo poche parole, sempre le stesse:
-“Buongiorno. Un biglietto di seconda classe per Senigallia.”
-“Ecco a lei.
-“Grazie e arrivederci
-“Buonasera.
-“Uno, galleria”.
-“Sono 300 lire”
-“Ecco il resto”.
-“Arrivederci”.
Non erano state certo quelle frasi di cortesia a destare la curiosità di entrambi e l’interesse dell’uno verso l’altro. Gli occhi di lei erano di un azzurro opalescente. Nel ringraziare sorrideva; sulle sue guance, appena colorite dal fondotinta, si formavano due piccole fossette: le aveva notate da subito e ne era rimasto molto colpito. Le mani piccole ma dalle dita affusolate si muovevano agili sfiorando con grazia i tagliandi FS.
D’inverno le proteggeva dal freddo tenendole calde in guanti di lana colorati. Spesso per afferrare il biglietto del cinematografo, di carta sottile, che lui gli passava da sotto il vetro, doveva sfilarli entrambi. Lo faceva lentamente, con grazia; le persone in fila si spazientivano un poco ma per lui quel momento rappresentava l’unica degna conclusione di una giornata altrimenti noiosa e uguale a tante altre. Fu invece il tono basso dal timbro seducente della voce ad attirare l’attenzione di lei. Quella mattina, dietro lo sportello della biglietteria della stazione, alzando la testa dal registro incontrò il volto di un uomo pensieroso dalla fronte alta, un  accenno di calvizie, che chiese con la sua bella voce:
 -“Buongiorno. Un biglietto di seconda classe per Senigallia.”
Poi, come dicevo, per anni solo quelle poche scambi di battute venate di cortesia. Ma tra loro era nato qualcosa. I loro appuntamenti avevano la regolarità di un orologio svizzero: lui, il lunedì, in stazione; lei, il giovedì, al cinema. Si alternavano dietro lo sportello donandosi un poco di amore reciprocamente compiendo un gesto banalissimo: strappare un biglietto. Presto i loro cassetti si riempirono di cartoncini colorati. All'insaputa l’uno dell’altro l’uomo e la donna appuntavano su quei talloncini commenti e osservazioni come: “Film pessimo e poi oggi mi sembrava triste”; “Non
mi ha guardato come fa altre volte”. Oppure: “Questo è il cinquantesimo biglietto per Senigallia: è il nostro anniversario”. La scrittura di lei era minuta e accurata; lui usava una grafia dal segno corposo. A questo punto della storia mamma posando il lavoro a maglia sopra il tavolino liberate le
mani mia madre mimava un fuoco d’artificio dicendo contemporaneamente:
-“Puf”. Gli occhi mi si inumidivano ogni volta, sentendola proseguire.
-“Puf. Un giorno lei trovò una donna anziana, mai vista prima, a vendergli il biglietto dell’ultimo film di De Sica. E a lei il lunedì successivo nessuno chiese una terza classe per Senigallia”.
Man mano che crescevo il mio interesse per quella storia andò scemando. Mia madre se ne accorse e al principio ne fu dispiaciuta: stava perdendo l’unica persona interessata a quella stramba vicenda.
Io preferivo ascoltare la radio  o uscire a giocare a calcio con gli amici. Poi arrivò mio figlio a cui passai il testimone; fu svezzato dalla nonna con quel racconto. D’altra parte, nel frattempo, l’aggravarsi della demenza senile di mia madre si era portata via assieme ai ricordi anche la storia
di quei due. Ne ero rimasto l’unico depositario. La malattia se la portò via in pochi anni. Quei biglietti rossi con su scritto Cinema Odeon  li aveva conservati  tutti dentro una busta. L’eredità di mia madre; scoperti dopo la sua morte in un  cassetto nascosti sotto un taglio di stoffa. Porto quei rettangolini di carta sempre con me per mostrali  come prova  a chi ha la pazienza di starmi ascoltare: ma invano. Dopo un po’ scrollano le spalle e parlano d’altro.

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